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Data: 01/10/11

Rivista: ottobre 2011

Siamo a Mosca. Un giovane orfano ceceno viene processato per l’omicidio del padre adottivo, un ex ufficiale dell’esercito sovietico che lo ha preso con sé dopo la guerra. Il caso sembra chiuso e le prove della sua colpevolezza appaiono, ad una prima analisi, inconfutabili. Dodici giurati vengono quindi condotti e “chiusi” in una palestra con il compito di arrivare in maniera unanime ad un verdetto. Tutto fa presagire un rapido epilogo della seduta ma, alla prima votazione, il dubbio si insinua in uno di essi. Da qui seguirà una lunga diatriba tra i dodici che li porterà a scovare la verità nel profondo delle proprie coscienze.

Una giuria, composta da altrettante personalità differenti di diversa estrazione sociale, ognuna con il proprio bagaglio di esperienze, pregiudizi, paure, sentimenti e segreti, è responsabile del destino di questo giovane.

Dapprima quasi senza rendersene conto ma poi, una volta insinuato dentro di loro, il dubbio si farà strada lentamente e li contagerà tutti, facendo vacillare le certezze che fino a pochi istanti prima consideravano inossidabili. La pellicola di Mikhalkov è pervasa da un buon numero di “questioni” perennemente aperte che caratterizzano la nostra società ma che, ancor più, rappresentano l’essenza dell’essere umano: la sua superficialità, il suo egoismo, inteso come la ricerca del proprio benessere a scapito di quello degli altri, la riluttanza ad assumersi le proprie responsabilità, la precaria coerenza delle decisioni prese, la corruttibilità e l’influenza esercitata dagli altri che finisce per condizionare il comportamento del singolo individuo…

Da notare la differenza rispetto ad altre produzioni cinematografiche che puntano maggiormente sulla “spettacolarità” dei processi giudiziari, mirando al colpo di scena attraverso ingegnose intuizioni e mirabolanti arringhe da parte di uomini di legge e che eleggono a protagonisti del caso gli avvocati stessi, senza dimenticare imputati o testimoni dotati di particolare carisma. Per una volta, invece, l’attenzione è focalizzata sui giurati e su ciò che accade “dietro le quinte”, con una particolare analisi psicologica nel campo della cosiddetta “influenza sociale” per quel che concerne i processi decisionali nei piccoli gruppi. Il gruppo, in questo caso, è la giuria e le interazioni tra dodici personalità diverse, chiuse in una stanza ed isolate da condizionamenti esterni, produce inevitabilmente delle discussioni. Si possono prendere in prestito alcune nozioni proprie della psicologia sociale per analizzare alcune delle situazioni presenti nel film.

Il cosiddetto “groupthink”, un esempio estremo di polarizzazione di gruppo, può verificarsi in un insieme composto da individui dalla mentalità simile nella situazione in cui la ricerca del consenso risulta talmente pressante da alterare la percezione della realtà. Tale processo può essere rischioso, in quanto il pensiero di gruppo può portare ad un consenso illusorio nel momento in cui gli individui sono più preoccupati di raggiungere una scelta unanime rispetto alla bontà riguardo quest’ultima. In poche parole, raggiungere il consenso si rivela più importante del modo in cui esso viene ottenuto. Come si può evitare tutto questo? Attraverso il pensiero critico, l’apertura al dissenso, la condotta del cosiddetto “avvocato del diavolo”.

Il regista ne dà una dimostrazione, introducendo il ruolo determinante di una minoranza.

Quest’ultima è in grado di esercitare la sua influenza solo se colui che ne è portavoce dimostra di possedere una posizione ben definita sull’argomento, fermezza sulla propria posizione e resistenza alle pressioni della maggioranza.

Mikhalkov offre la sua personale visione di come questo possa accadere e, nel finale, riesce a rimescolare ulteriormente le carte e mettere in discussione le nuove certezze acquisite nel corso della seduta. Da sottolineare la buona prova collettiva dei dodici protagonisti, che si destreggiano egregiamente per circa due ore e mezzo farcite di profonde riflessioni attinenti al processo e capaci, altresì, di mettere a nudo le loro debolezze come uomini, il tutto con l’aggiunta di situazioni meno serie e più distensive in grado di strappare qualche sorriso.

Questa produzione russa è poco fumo e molta sostanza, non si perde in virtuosismi e ci propone un punto di vista diverso in un filone cinematografico che solitamente pone sotto i riflettori le aule di tribunale piuttosto che il modo in cui viene raggiunta una sentenza e si è guadagnata, nel 2008, la nomination all’Oscar come miglior film straniero.

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