La via più rapida per la comprensione di uno Stato e della sua società e civiltà è la visita delle sue prigioni. Questo breve viaggio parte ovviamente nel nostro bel paese: l’Italia. Agli inizi degli anni ’90 i detenuti in carcere erano circa 27 mila, oggi sono diventati 54 mila. Si usa dire che in quest’ultimo decennio sono raddoppiati ma in realtà sono triplicati se si considera che allora in misure alternative c’erano quasi quattromila detenuti mentre oggi sono trentamila, quindi sommati ai 54 mila danno un totale di quasi novantamila persone che scontano una pena.
Ci sono quindicimila detenuti di troppo rispetto ai quarantamila posti disponibili nelle carceri italiane. Dall’estate scorsa, dal giubileo, si è creata una grande attenzione sui problemi del carcere che ha portato tra l’altro all’approvazione in finanziaria di un fondo sociale di 380 miliardi per il reinserimento sociale.
I soldi ci vogliono, sono essenziali, ma sono buttati via se non sono accompagnati da chiara e ferma volontà politica-istituzionale di cambiare finalmente le cose, sradicando piccoli centri di potere, privilegi. È proprio nel sistema carcerario che più che altrove si è sempre cambiato tutto per non cambiare nulla.
Il dottor Giancarlo Caselli che pareva l’uomo giusto al posto giusto è stato già trasferito alla guida della giustizia europea, al suo posto con funzione vicarie di capo il suo ex vice capo Paolo Mancuso. Possiamo solo sperare che il governo che verrà, quello del Polo, inizi veramente un’opera di rinnovamento, basterebbe solo che le stesse leggi già approvate siano rese realmente esecutive ed operative alla lettera e non invece che rimangono lettera morta come finora. È in predicato come possibile prossimo ministro della giustizia Marcello Pera, senatore a Lucca, l’unico dei professori apprezzati dal Cavaliere Berlusconi per il suo iper-garantismo. Il suddetto senatore si dice deciso a rivoluzionare il mondo delle toghe ed io “mi consento” di aggiungere non solo, ma si rivoluzioni tutta l’amministrazione penitenziaria dal primo all’ultimo dirigente.
Purtroppo personalmente credo che ciò non avverrà, rimarrà un sogno che difficilmente sarà fatto suo dal Cavaliere. Nel frattempo possiamo solo registrare la sana protesta del detenuto nella casa circondariale di Rovereto al quale è impedito di sottrarsi al fumo passivo dei suoi compagni di cella. Immaginiamo il poveretto che divide una stanza di 16 metri quadri (l’equivalente di un salotto) con altri sei compagni. È inverno, c’è un unico vecchio e piccolo termosifone in ghisa, quindi le finestre saldamente chiuse, i suoi compagni fumano almeno trenta sigarette al giorno e di quelle forti, economiche, senza filtro. Ebbene il disgraziato si trova a respirare il fumo di duecento sigarette al giorno. Si comincia a prenderne coscienza, la sua non è stata una semplice condanna a sei mesi o a un anno, bensì una condanna a morte. Ai detenuti non è garantito il diritto alla salute, sono come gli extracomunitari, cittadini di serie B. Questo è il carcere in Italia, una comunità assai complessa su cui si scaricano le ferite sociali della nostra società, dalla tossicodipendenza all’immigrazione, dal disagio psichico a altri gravi patologie e dove si tarpano le ali dell’ambizione di rappresentarlo come luogo trasparente e propulsore dei diritti di cittadinanza.
Si tratterebbe semplicemente di completare ed attuare il processo riformatore e la continua emergenza derivante dal sovraffollamento rappresenta un oggettivo ostacolo per l’avvio e l’attuazione delle riforme. Scrive il filosofo tedesco Nietsche nella Gaia Scienza “La pena ha lo scopo di far sentire, migliorare colui che la infligge. Questa è l’ultima via di scampo per i difensori della pena. Per la Chiesa cattolica invece la pena ha come primo scopo il ripagare ai disordini introdotti dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, la pena ha valore di espiazione. Inoltre, la pena ha lo scopo di difendere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone. Infine ha valore medicinale: nella misura del possibile essa deve contribuire alla correzione del colpevole”.
Usciamo ora dall’Italia e guardiamo un po’ in casa d’altri. Austria e Svizzera hanno un sistema carcerario efficiente: viene garantito il lavoro, la salute, è sconosciuto il sovraffollamento e c’è differenziazione fra i diversi gradi di giudizio. Tutta un’altra storia invece alla Sortè, la storica prigione di Parigi, dove si viene quasi privati della propria umanità, tra violenze, droga, stupri, tentativi di suicidio, prevaricazioni. Le vecchie prigioni sono in realtà un problema comune a molti paesi. Quella di Whoodhill in Gran Bretagna dove vengono mandati i criminali più pericolosi ha un braccio speciale: celle singole, un materasso sul pavimento, il cibo passato attraverso uno sportello, un’ora d’aria al giorno senza contatti. Un’organizzazione di volontari lo ha definito “una discarica umana”. In Gran Bretagna, peraltro, ci sono anche sei prigioni private, meno soggette a vincoli burocratici e spesso più umane. Ma è dall’altra parte dell’Atlantico che il sistema delle prigioni private è nato, con discreta fortuna. Fra i paesi industrializzati gli Stati Uniti hanno il più alto numero di detenuti in rapporto agli abitanti (due milioni di detenuti su 280 di abitanti). Dal 1970 la popolazione carceraria si è moltiplicata per dieci, soprattutto a causa della filosofia “tolleranza zero”. Ma non altrettanto rapida è stata la costruzione di nuove prigioni e ci sono episodi di “maladetenzione”. In Arizona uno sceriffo ha ordinato che le detenute abbiano le catene alle caviglie mentre le partorienti detenute nella baia di New York al momento del parto tengono legate mani e piedi al lettino per evitare che fuggano. Le prigioni private sono più tranquille, se non altro perché i loro così chiamati “residenti” sono persone condannate ad un massimo di cinque o sei anni per reati non gravi. Le prigioni private non sono una panacea e non tutti le approvano. Certo, è un altro segno dei cambiamenti che incombono sull’universo carcere. In Europa molti paesi riconoscono già il diritto all’affettività come strumento di riabilitazione. Un’esperienza positiva in questo senso viene dai paesi scandinavi.
Il top dei buoni viene proprio dalla Norvegia dove fanno di tutto per non mandare in galera i cittadini a meno che non abbiano commesso crimini gravi e siano ritenuti pericolosi: è cioè la rinuncia dello Stato all’azione penale, se ricorrono certe condizioni.
Siamo arrivati ora al carcere olandese, di Haarlem un vecchio edificio di un secolo fa, ci sono 350 celle, una per ogni detenuto, e uno staff altrettanto numeroso tra guardie, impiegati ed assistenti sociali, senza tener conto dei servizi affidati ad agenzie esterne. Durante il giorno tutti al lavoro o nelle aule a frequentare i corsi. Ad aiutarli una volta fuori provvede la stessa amministrazione tenendo i contatti con agenzie ed organizzazioni civiche.
Per concludere, questo non vuol dire che nella civile Europa il carcere sia sempre un luogo di redenzione.
Nella Russia di oggi orfana delle ex Repubblica su 148 milioni di abitanti ci sono più di un milione di detenuti e bastano queste cifre a far capire come sia difficile la situazione, ne viene fuori un quadro fatto di sovraffollamento, soprusi, miserie e sofferenze.
Seconda parte: Il braccialetto o la cavigliera elettronica?