A.G.S.A.T

Data: 01/02/15

Rivista: febbraio 2015

“La realtà di una persona autistica è una massa interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi, rumori e segnali. Niente sembra avere limiti netti, ordine, significato” (Therese Joliffe in Temple Grandin)

Gran parte della vita delle persone con autismo è dedicata allo sforzo nel riordinare questo caos, nello scoprire le leggi che governano il mondo, le persone e le relazioni poiché, a differenza delle persone “neurotipiche”, nell’autismo manca un programma che permetta di comprendere tutto questo in maniera intuitiva. Un autistico quindi, nel suo percorso di crescita può avere la fortuna e le risorse per riuscire a creare questo ordine, nei pensieri e nelle percezioni, tanto da poter raggiungere un adeguato livello di autonomia e un soddisfacente livello di qualità di vita. Alcuni personaggi famosi sono testimonianza di questo percorso (Temple Grandin, Donna Williams, Einstein), purtroppo però, per tanti, questo non accade e il mondo resta un luogo minaccioso ed imprevedibile. Quello che tuttavia accomuna tutte le persone autistiche (e anche i “neurotipici”) è il bisogno di autorealizzazione. Se il bambino ha la necessità di rassicurazione, protezione e contenimento, l’autistico adulto, come qualsiasi altro essere umano, ha bisogno di trovare il proprio spazio nel mondo e di sentirsi competente in qualcosa: dalle cose più piccole come riuscire ad essere autonomo nella cura della propria persona a cose più impegnative come attività lavorative. Ovviamente il sentirsi competenti passa attraverso la relazione con l’altro e cioè il fatto di sentirsi riconosciuto, valorizzato e parte di un gruppo, insomma “ingranaggio del mondo”.

In tutto questo mi chiedo cosa possiamo fare noi per favorire questo processo? Come possiamo fornire un aiuto adeguato?

In primis, a mio parere, è necessario riconoscere che i bisogni speciali nell’autismo sono ancor più speciali rispetto ad altre disabilità. Questo non vuole essere un giudizio di valore o un criterio di priorità bensì il riconoscimento di una maggiore complessità nel rapportarsi a questo tipo di disturbo rispetto ad altri. Da questa considerazione nasce poi la necessità di avere un bacino di professionisti altamente specializzati.

Secondo: osare, rischiare, ovvero creare opportunità, mettersi in discussione. Ogni autismo, così come ogni persona, è particolare e singolare e non esiste un trattamento o un’attività che possa andare bene per tutti. Il rischio maggiore è quello di fermarsi all’apparenza della persona autistica (che altro non è che il nostro pregiudizio) e proporre qualcosa di standardizzato e al di sotto delle potenzialità, che, per quanto nascoste, sono infinite.

Dott.ssa Irene Colizzi, Coordinatrice Centri A.G.S.A.T. Onlus

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