A muso duro, nella musica e nella vita

Data: 01/12/01

Rivista: dicembre 2001

Il cantautore Pierangelo Bertoli non è di certo un “handicappone”, l’handicappato pigro e piagnucoloso che pro.di.gio. ha esorcizzato come pericoloso fin dal suo “numero zero”. Lo testimoniano la carriera artistica del cantautore, il suo impegno politico e sociale, la vita privata. Lo cantano le sue canzoni/poesie, con testi che accanto a storie liriche e d’amore parlano anche di sfruttamento, di emarginazione, di tossicodipendenza, di emigrazione.

“A muso duro” – canzone che è manifesto programmatico e una sorta d’autoritratto in musica – chiude da sempre i suoi concerti. E non per caso né per narcisismo, ma per coerenza, per sincerità, per il desiderio di manifestare sempre il proprio punto di vista, anche quando è scomodo, controcorrente, e si paga con l’esclusione dai grandi mezzi di comunicazione (leggasi TV, regno del perfetto, del bello, della condiscendenza) e la messa in disparte. La caparbietà e la forza espressiva di alcune delle sue più famose canzoni Bertoli le ha esercitate anche nei confronti della vita.

I suoi pezzi si caratterizzano per i testi e un linguaggio musicale personale, con contaminazioni tra rock, musica popolare italiana, country, blues. Il cantautore emiliano è sempre andato e va ancora a cantare dappertutto, dai teatri ai palazzetti dello sport alle feste popolari o di partito. Di recente ha tenuto una serie di concerti all’interno di alcune carceri italiane, con grande impatto emotivo.

“Io sono nato libero. Mia madre era per la libertà assoluta. Ho cercato di vivere una vita normale. Mi è andata bene. Avevo un fisico ‘stortignato’ dalla metà in giù ma molto forte. E l’ho trattato malissimo: ho faticato e fumato troppo, guidato tanto, fino a 800 chilometri al giorno per 300 giorni all’anno. Oggi il corpo mi dà, e con ragione, qualche segnale di stanchezza: sento più adesso che quando ero giovane la condizione di handicappato”.

Bertoli mi riceve nella sua villa nella zona sud di Sassuolo, capitale mondiale delle piastrelle di ceramica, 40.000 residenti tra i quali Pierangelo è uno dei pochi che può vantarsi di essere nato nel quartiere più tipicamente e orgogliosamente sassolese. Di recente ha ripubblicato la sua prima raccolta di canzoni nel dialetto locale: “Roca Blues” (1975), che conteneva già alcuni dei testi ancora oggi famosi.

“Anche se non ho potuto mai muovermi davvero da solo, ho cercato di vivere una vita normale, avendo rapporti con le donne, una moglie, la benedizione dei figli. Cosa mi è mancato? Be’, non ho mai giocato a pallone, ad esempio. Le donne? Erano loro la risorsa, mi cercavano e risolvevano i problemi. D’altra parte si conquista una donna solo se lei è disposta a farsi conquistare: sono loro che scelgono…”.

Cosa può diventare causa di limitazione, di prigionia?

«L’educazione, la cultura, i genitori, il prete, la suora, gli anziani… Non bisogna mai piangersi addosso, usare espressioni come quelle che usavano con me: “Poverino, così bello, che peccato!”. I genitori non devono vivere e fare vivere l’handicap come una tragedia. Ricordo una ragazza all’Handy Camp, il campeggio per handiccapati di Ronchi d’Ala: venne al campo costretta dal suo medico e alla fine non voleva più tornare a casa. Io dissi alla madre: “Madri e fratelli spesso ti aiutano ad essere più dipendente: l’eccesso di amore ha effetti negativi”».

Ma è possibile essere autonomi fuori di casa?

«L’handicappato è un rompiscatole. In Italia l’abbattimento delle barriere è ancora un problema: negli uffici pubblici, in chiesa, all’università, in banca, nel condominio… La possibilità di muoversi e lavorare all’interno delle strutture più vecchie è praticamente nulla. Negli anni ’80 ho fatto parte della Commissione parlamentare per le leggi sull’handicap. Quando si proponevano sanzioni contro chi non rispettava le leggi erano tutti contrari; ancora oggi in Italia si può violare qualunque norma, senza problemi. La Jervolino mi diceva che agli enti che si occupano di assistenza – perlopiù ecclesiastici – venivano pagate cifre enormi, date spesso alle persone sbagliate, quelle che impediscono al portatore di handicap di vivere la sua vita “qui ed ora”. È vero – come disse anche l’on. Formigoni, qualche anno fa, al Circolo della Stampa di Milano, in occasione della presentazione di uno spot contro le barriere architettoniche – che le barriere più grandi le abbiamo nella testa, ma è anche vero, come gli replicai io, che ci sono tanti problemi pratici. Potrei fare mille esempi. Se sulla patente o sulla carta d’identità, per facilitarmi, sta scritto “professione invalido”, perché pago l’IVA come uno sano? Le facilitazioni, quando ci sono – come la riduzione delle tasse o l’assegno di accompagnamento – sono solo apparenti: sulla macchina pago il 4% anziché il 20% ma poi il cambio automatico e i comandi manuali costano diversi milioni… In Inghilterra, in Francia le leggi a favore dell’handicap sono anche meno che in Italia, dove ce ne sono a quintali ma non servono a niente, solo ad essere contravvenute, in particolare al Sud, dove il senso della legalità è più scarso».

Ma parliamo anche della tua esperienza musicale…

«Quando ero piccolo non avevamo neanche la radio. Questo non mi impedì di innamorarmi della musica di Frank Sinatra. Quando avevo 18/19 anni mio fratello cominciò a suonare in casa con il suo complesso: scoprii la batteria, il basso, il coro. Mi avevano regalato un giradischi, comprai tanti dischi.

A 23 anni mi diedero una vecchia chitarra, nel giro di un anno scrivevo canzoni, su quaderni dei quali ne conservo ancora un paio. Cantavo per gli amici, le mie canzoni piacevano, e poco alla volta, in quasi dieci anni, presi coraggio. Anche se spesso mi dicevano che in Italia per un handicappato non c’era spazio, che contavano solo la perfezione fisica, la bellezza, il look… Per fortuna io ero cantautore e il cantautore, come mi disse il produttore discografico Sugar, è il personaggio di quanto scrive. Così mi sono trovato a fare il mestiere della musica, con 225 canzoni scritte e incise. In questo mondo più che il talento oggi contano la pubblicità, la promozione, la casa discografica, i rapporti con la radio, la tv: niente succede gratis. I dischi, grazie alla tecnologia, si possono realizzare con pochi soldi ma la pubblicità costa anche 20 volte di più che ieri. Poi ci sono gli sponsor e tutto il resto…».

Dopo quasi trent’anni nel mondo della musica (con due partecipazioni a San Remo, cinque al premio “Tenco” e varie presenze nei maggiori talk-show televisivi) Bertoli non è ancora un integrato, come si diceva una volta, non si è mai fatto chiudere in un clichè, in giri di parole vuote ripetute per correre dietro al successo di cassetta, alle più facili mode. Resta il cantautore ostinato che è sempre stato, poeta e musicista originale, nel rispetto di se stesso e degli altri. La musica può essere ancora strumento di riscatto, di liberazione?

«Una volta i suonatori (come i pugili o i calciatori) venivano dal mondo del lavoro, della fatica, anche della miseria. Oggi cantanti e cantautori non sono più poveri o poverissimi, sono laureati e la musica non è riscatto. Le motivazioni sono diverse: può essere un modo più facile per avvicinare le donne (“Il palco fa più bello”…) oppure – come per mio figlio, che fa il rocker – un modo per demassificarsi, terminologia degli anni ’60, oggi più attuale che mai. Il dio denaro sembra comunque l’unico per cui la gente è disposta a sacrificarsi. Credo che di tutto Marx almeno una frase, che cito a memoria, vada salvata: “Fino ad oggi ho creduto che fossero le leggi a determinare le religioni, l’economia. È invece il contrario».

Come si vede, aveva ragione Sugar: il cantautore è già il personaggio di quanto scrive. E anche Bertoli ha ragione a chiudere i suoi concerti cantando a “Muso duro”, senza rischiare l’ipocrisia opportunistica o l’appropriazione indebita di un ruolo.

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