A.P.A.S. Un impegno costante nei confronti di chi sta “dentro”

 

A.P.A.S. ODV – l’associazione provinciale di aiuto sociale per i detenuti, i dimessi dagli istituti di pena e le loro famiglie – nasce nel 1985 dall’idea di un gruppo di cittadini trentini con lo scopo di dare assistenza alle persone detenute dell’allora carcere di via Pilati. A oltre trentacinque anni dalla fondazione, l’associazione svolge attività di sostegno individualizzato, formazione al lavoro e accoglienza abitativa per circa quaranta persone all’anno ancora detenute, uscite dal carcere o ammesse ad una misura alternativa alla detenzione in carcere. Il lavoro di A.P.A.S. ODV è svolto da un nutrito gruppo di volontari e da alcuni operatori, tra cui assistenti sociali, tutor e educatori. Un operatore e circa dieci volontari accedono alla casa circondariale di Spini di Gardolo per svolgere colloqui conoscitivi, di segretariato sociale e di sostegno psico-sociale. Inoltre, sono organizzate attività culturali come la redazione di un notiziario, “Non solo Dentro”, redatto con la preziosa collaborazione di Vita Trentina. Infine, è organizzato anche uno sportello di patronato, in stretta sinergia con Patronato ACLI Trentine. A.P.A.S., però, svolge la gran parte delle proprie attività fuori dal carcere, in un’ottica di accoglienza nella società e nel territorio del soggetto precedentemente ristretto. Infatti, A.P.A.S. gestisce, al momento, ben otto appartamenti, di cui due in rete con ATAS Onlus, per l’accoglienza di persone, soprattutto, dimesse dal carcere. Riteniamo sia sempre importante sottolineare la delicatezza del fine pena e del ritorno sul territorio di persone fragile e disorientate dall’esperienza detentiva. Questa, per quanto anche rieducativa, è sostanzialmente traumatica e acuisce fragilità personali già insite nella persona o ne fa nascere altre. Ci permettiamo di portare all’attenzione l’importante insorgenza di patologia croniche, come il diabete, nei soggetti ristretti a causa di stress, poco movimento fisico e un’alimentazione poco adeguata. I volontari, debitamente formati, si impegnano in prima persona nell’accogliere i bisogni delle persone accolte tramite attività programmate come gli sportelli in carcere e le attività formative organizzate, oppure, in maniera del tutto individualizzata come nel caso di lezioni per il conseguimento della patente di guida, esercizi di italiano, accompagnamenti per conoscere i servizi del territorio trentino e, soprattutto, della città di Trento.

TESTIMONIANZE

L’altro e me: oggi e domani.

Un caloroso saluto a tutti voi. So quanto sia poco ortodosso cominciare uno scritto così ma sento proprio il desiderio di salutarvi uno per uno. Ospiti, assistiti, volontari, collaboratori, educatori e tutto il mondo di A.P.A.S. ODV. Ho incontrato solo da poco meno di due mesi il vostro mondo ma, nonostante questo breve tempo, ho già avuto modo di conoscere persone molto speciali.

Giustamente vi domanderete chi sia io. Bene. In breve, molto in breve, mi chiamo Riccardo, sono sposato da… tanto tempo, abbiamo una figlia ormai lanciata nella sua vita e, per non farmi mancare nulla, alla soglia dei quarant’anni ho pensato bene di rimettere mano ai libri di scuola iscrivendomi all’università di Trento.

In preparazione dell’ultimo scalino da affrontare, la fatidica tesi, con il mio relatore abbiamo concordato, visto il mio interesse verso il metodo della consultazione transculturale, di fare un’esperienza diretta del carcere, per toccare con mano i vissuti e le esperienze sia dei migranti sia degli operatori che con essi vivono e condividono quotidianamente fatiche, progetti e speranze.

Ecco, ho già usato un parolone. Niente paura, è solo un metodo, uno strumento in più, che dovrebbe appartenere alla cassetta degli attrezzi di quanti, operatori e non, si avvicinano al “mondo della vita” dell’altro. È nella necessità di capirsi, di comprendersi, di parlarsi nella stessa lingua che risiede l’utilità della consultazione transculturale. Spesso anche gli stessi operatori sociali incontrano enormi ostacoli nel costruire con persone di background migratorio una comunicazione effettivamente comprensiva, che dia luogo ad efficaci percorsi di intervento. Però. Si un però c’è: questo capirsi, questo parlare la stessa lingua, non deve sottendere l’adagio classico del “noi” occidentali abbiamo le risposte, mentre “gli altri”, i migranti, sono solo portatori di problemi. Il messaggio forte, invece, è quello di cercare “provincie finite di significato”. Altro parolone, e due. Parlo cioè di spazi nei quali l’altro, i suoi bisogni, i suoi vissuti e anche le sue difficoltà, vengono riproblematizzati partendo dalla consapevolezza che l’altro è, appunto, il più grande esperto di sè stesso. Da qui emerge per noi la necessità di osservare, leggere e interpretare questi bisogni alla luce anche dei riferimenti normativi e culturali di chi abbiamo davanti. Vuol dire, in breve, che dobbiamo ricordarci quotidianamente di mettere l’altro al centro del suo progetto di vita.

Eh sì, è dura. È dura entrare in contatto con situazioni e vissuti così distanti e a volte in aperta contrapposizione alle nostre convinzioni ed ai nostri modelli culturali di riferimento. Quante volte nelle discussioni tra compagni e insegnanti, ma anche nella vita privata, immerso nei preconcetti e a volte anche nei pregiudizi, mi sono trovato, prima ancora di riflettere, a puntare un dito accusatorio contro l’altro. Chissà quante volte lo facciamo anche senza cattive intenzioni.

Nel carcere di Trento al 31 ottobre del 2021 per il ministero della Giustizia erano presenti 301 detenuti su una capienza di 410. Di questi 181, ben il 60% erano stranieri. Inoltre, i casi di suicidio, di tentato suicidio, di autolesionismo tra la popolazione carceraria sono in costante aumento. Le recidive all’ordine del giorno. Ultimo dato: sono anche presenti circa una trentina di detenuti che soffrono di disturbi psichiatrici e che, ciò nonostante, condividono lo stesso spazio degli altri invece di poter accedere a percorsi di cura dedicati. Questa realtà, anche se l’ho dipinta a tratti molto grossolani, dovrebbe farci riflettere.

L’ipotesi è che la consultazione transculturale possa essere un dispositivo professionale utile nell’interazione con persone portatrici di un background migratorio, in quanto parte dai retroterra normativi, e simbolici, e dalle modalità comunicative tipiche di molte società non occidentali, per accogliere il vissuto personale dell’utente senza rinchiuderlo in scatole culturali predefinite. È un metodo di lavoro che potrebbe consentire ai partecipanti di superare i reciproci pregiudizi e di attuare una più efficace inclusione del punto di vista del migrante, ridefinendo la sua diversità non come disagio ma come risorsa importante da cui ripartire e su cui ricostruire.

 

Riccardo (volontario A.P.A.S.)

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