Via dalla pazza guerra è un libro autobiografico che colpisce con la soverchiante forza della semplicità e della quotidianità. Alidad Shiri è infatti un bambino come tanti, con un’infanzia spensierata intrisa di piccole cose e grandi emozioni: il volto del padre che si distende davanti a una bella pagella, la madre china sulle pentole nei giorni di festa, la mano rugosa della nonna che, d’inverno, fa sedere i bambini attorno a sé e racconta la storia della famiglia. Il loro Afghanistan però purtroppo non è un Paese come tanti e così nel giro di pochi mesi Alidad perde in due diversi attentati prima il padre, esponente di spicco della minoranza etnica degli hazara e poi la madre, la nonna e la sorella minore. A quel punto non gli resta altra scelta se non emigrare, in un lungo viaggio che lo porterà dal Pakistan, all’Iran e infine a Merano, dove giungerà legato sotto un tir. Qui, grazie agli educatori del Kinderdorf di cui è ospite e alla professoressa Gina Abbate, Alidad troverà la forza di ricominciare e raccontare la sua esperienza in un libro-testimonianza, giunto ormai alla tredicesima edizione e cresciuto assieme al suo autore, che oggi ha preso il diploma e si sta laureando in Filosofia politica, etica e scienza delle religioni all’Università degli Studi di Trento. Noi l’abbiamo incontrato e davanti a un caffè gli abbiamo posto le seguenti domande:
1. Quando sei scappato dall’Afghanistan avevi appena 9 anni. Cosa ricordi del tuo Paese? E della tua famiglia?
Il ricordo più bello della mia famiglia è dei momenti in cui mangiavamo insieme, chiacchierando dei più diversi argomenti. Anche la nonna mi raccontava molte cose e mi coccolava tanto. Del mio Paese mi mancano la famiglia, gli amici, l’affetto delle persone care.
2. Come sei arrivato da lì all’Alto Adige?
È una storia troppo lunga per essere riassunta in due parole. A un certo punto, dopo che sono stati uccisi i miei familiari, dovevo andarmene, non c’era altra via. È stato un viaggio terribile e tante volte ho visto in faccia la morte. Ci ho messo in tutto più di 4 anni, compreso il periodo in cui ero profugo con i miei parenti a Quetta, in Pakistan.
3. Come è nata l’idea di scrivere un libro sulla tua esperienza?
L’idea è nata da un suggerimento della mia professoressa Gina Abbate. Lei mi disse che raccontando la mia storia, avrei potuto aiutare tanti altri ad aprire gli occhi. Non avrei immaginato tanto successo e sensibilità, né tanti inviti in tutta Italia. Ancora oggi mi chiamano a portare la mia testimonianza in scuole, associazioni, parrocchie e università.
4. Come vedi la gestione dei crescenti flussi migratori che arrivano in Europa? L’integrazione è possibile?
Io purtroppo non vedo in modo ottimista il futuro; in Europa la gestione è troppo unilaterale, ogni Paese va per conto suo e non c’è la voglia di collaborare. Sembra un’emergenza, ma invece i flussi migratori sono un fenomeno destinato a durare per molto tempo e a creare una situazione nuova in tutti i Paesi europei. Si tratta di decidere un piano di lungo periodo: includere i rifugiati là dove possono entrare in un mercato del lavoro di cui possa beneficiare tutta la società e anche loro stessi. Oppure resta l’alternativa di fare assistenzialismo. Bisogna ragionare su progetti che dimostrino quali siano le migliori pratiche di integrazione. Anche noi in Italia ne avremo per molti anni, perciò prima si inizia a lavorare, meglio è.
5. Cosa sogni per il tuo futuro e cosa auguri ai giovani come te?
Sogno un mondo migliore, in pace, senza ingiustizie, dove ci si possa incontrare ed accogliere a vicenda. Sogno di potere dare a tutto ciò il mio contributo anche professionale, magari lavorando con l’Onu. Penso di essere ormai vicino alla realizzazione di questo sogno grazie a moltissime persone che mi sono state vicine, mi hanno coccolato, sopportato e dato fiducia, cosa non facile perché sono molto testardo. Il consiglio che do ai giovani è di pensare che ognuno deve fare la sua parte per un mondo più giusto, un mondo che dobbiamo costruire tutti insieme. È importante anche informarsi con spirito critico, senza fermarsi ai mass media più comuni.
Didascalia foto: Alidad Shiri con Paolo Ghezzi, direttore editoriale de Il Margine, la casa editrice di Via dalla pazza guerra.