Quattro chiacchiere con Giulia Bellotto per andare oltre i tabù.
Quello dei sentimenti e della disabilità è un tema spesso posto in secondo piano, ma su cui c’è molto da dire. Ci offre il suo punto di vista, con genuinità e profondità non scontate, Giulia Bellotto, giovane donna di 26 anni, affetta da osteogenesi imperfetta congenita.
Giulia, cosa pensi dell’amore e cos’è, per te, imprescindibile in una relazione?
Vedo l’amore come qualcosa che arricchisce entrambe le persone, non come un sentimento di bisogno, in cui cercare conforto perché ci si sente soli. Qualche anno fa, sia per l’idea diffusa nella società, sia perché ero meno consapevole dei limiti della mia malattia, vedevo il rapporto fra due individui nell’ottica della necessità ed ero convinta che un disabile avrebbe sicuramente avuto difficoltà nell’intraprendere una relazione. L’idea di avere qualcuno a fianco era un pensiero costante, come fosse un modo per auto-determinarmi, e mi chiedevo se sarei mai riuscita a trovare l’amore. Ora credo che si scelga qualcuno perché si vuole stare con lui/lei; c’è, ovviamente, l’idea di aiuto, ma questo è reciproco perché ognuno, all’interno di una relazione, ha i propri limiti. Ad oggi mi piacerebbe poter vivere a fondo questo sentimento; non sarò ipocrita dicendo che non vorrei non avere una disabilità, ma ho contezza della persona che sono e cerco qualcuno che mi apprezzi per tutto questo.
Come hai vissuto gli anni dell’adolescenza e le “prime cotte”?
Per via della disabilità ho avuto, e tuttora ho, a volte, meno fiducia in me stessa in quanto donna e temo il rifiuto. In adolescenza non avrei mai avvicinato un ragazzo che trovavo carino, la mia condizione fisica rappresentava uno scoglio, rimanevo “dietro le quinte”, aspettando che fosse l’altra persona ad esporsi. Era un periodo caratterizzato da una forte emotività e dal timore di non saper gestire la cosa; i miei coetanei avevano già avuto relazioni e io, invece, no. Dovevo controllare sia la parte emotiva che quella fisica. Il periodo universitario mi ha cambiata molto: un maggiore confronto e la possibilità di parlare anche dell’attrazione sessuale con i miei amici mi ha aiutato a comprendere che esistono diversi punti di vista.
Che limiti hai incontrato nelle relazioni che hai vissuto?
Le risposte che mi offre ora un ragazzo di trent’anni sono sicuramente più mature rispetto a quelle che ricevevo anni fa da miei coetanei, tuttavia riscontro sempre un po’ di timore nell’altro; paura di illudere, ferire o bruciare le tappe. È normale avvertire ciò, quando ci si interfaccia con una realtà diversa, ma l’intelligenza risiede proprio nel cercare di comprendere. Il mio consiglio, rivolto a chi vive una situazione simile, è quello di comunicare ed esprimere le proprie curiosità, con rispetto ed educazione. Io non sono una persona fragile, che necessita di protezione; posso essere più vulnerabile sotto certi aspetti, ma desidero essere trattata alla pari: una disabilità visibile non è sempre indice di fragilità, quest’ultima può ben nascondersi sotto un’apparente “normalità”.
Questo ci porta a parlare della percezione che la società ha delle cd. coppie “miste”, fra disabili e non disabili…
Spesso si percepisce la relazione in una coppia “mista” esclusivamente come rapporto assistenziale e di cura, quando in realtà una persona con disabilità prova le stesse sensazioni e desideri di ogni altro. Si pensa che il disabile sia quello che viene amato e viene scelto. Se io avessi una relazione stabile, inizialmente, avrei timore di quello che la società potrebbe pensare. Ho sentito spesso, in riferimento ad altre coppie, la frase «lui/lei sta con lui/lei e lo/la aiuta, perché altrimenti non ce la farebbe». Questo si ripercuote anche sul partner, che viene considerato come un mero “assistente” compatito e ciò non è bello né giusto.
Quali azioni concrete potrebbero invertire questo modo di pensare?
Per normalizzare qualcosa non è necessario estremizzare. Negli ultimi anni sono aumentate le pubblicità raffiguranti disabili o coppie “miste”, ma il responso mediatico avuto, spesso, porta ai commenti di cui sopra. È più efficace puntare sulla vera inclusività piuttosto che costruirla in maniera artefatta: ad esempio, il fatto che una madre disabile con un figlio al seguito possa fare la spesa con appositi carrelli che le permettano di occuparsi, contestualmente, del bimbo, è un fattore che aiuta molto di più. All’estero ci sono. Occorre creare luoghi accessibili nella quotidianità. L’impatto mediatico è più forte, ma non necessariamente a lungo termine. Prima si deve includere realmente il disabile, non dal punto di vista assistenziale ma sociale, poi si vedranno i mutamenti e le persone non si stupiranno più nel vedere coppie “miste”.