Appello proposta ai para-tetraplegici

Data: 01/12/06

Rivista: dicembre 2006

Se state camminando e qualcuno sbuca improvvisamente da dietro un albero, vi capitano due cose. Una è che la paura vi mette in allarme il cervello, l’altra è che le vostre ghiandole surrenali emettono epifrenina, l’ormone che produce i sintomi della paura: il cuore comincia a battere forte, il respiro accelera, la pressione sanguigna si alza, i muscoli si irrigidiscono… Ora, una questione è questa: cosa viene prima, la paura attivata dalla mente razionale o i cambiamenti fisiologici? Può sembrare assolutamente ovvio che, prima, avvertiamo la paura e, poi, ordiniamo al nostro corpo di predisporre una reazione ad essa. Ciò però, non sembrò così ovvio, già nel 1890, a due psicologi, James e Lange. Per loro, prima vengono i cambiamenti corporei e poi, come conseguenza, noi sentiamo paura.

Il buon senso dice: perdiamo la nostra fortuna, ci dispiace, piangiamo; incontriamo un orso, abbiamo paura e scappiamo; siamo arrabbiati e picchiamo… Un asserzione più che razionale è che proviamo tristezza perché piangiamo, ci arrabbiamo perché picchiamo, abbiamo paura perché tremiamo… Se lo stato corporeo non si accomodasse alla percezione, quest’ultima sarebbe puramente cognitiva in forma, pallida, incolore, priva di calore emotivo. Potremmo quindi vedere l’orso e decidere che è meglio scappare, ricevere l’insulto e considerare giusto picchiare ma di fatto non sentiremmo la paura o la rabbia.

La teoria andò in contro a varie contestazioni come quelle di Cannon, Bard e Arnold per i quali spetta soltanto a mente e cervello attivare ed esprimere uno stato emotivo. Nel 1966, però, lo psicologo Hohmann la convalidò effettuando un esperimento su traumatizzati vertebrali con danno midollare irreversibile e funzionalità variamente ridotta.

Questa la sua ipotesi: poiché il livello di controllo volontario sui muscoli e le percezioni tattili sono legati alla vertebra da cui escono i corrispondenti nervi spinali, ad una lesione al midollo più alta (verso la testa) corrisponderà una parte più estesa di corpo esclusa dal controllo volontario. Conseguentemente, la retroazione indotta dalle percezioni tattili e motorie dovrebbe essere più debole nello sviluppare emozioni.

Hohmann, dunque, chiese ai traumatizzati quali fossero le differenze fra le emozioni che provavano ora, dopo l’incidente, e quelle che ricordavano di aver provato prima: erano più intense, meno intense oppure erano uguali? I soggetti con lesioni sacrali denunciarono cambiamenti minimi, quelli con lesioni intermedie diedero indicazioni miste, comprese tra un abbassamento lieve per alcune e nessuna sostanziale differenza per altre. Infine, quelli con lesioni cervicali dichiararono un calo in emozioni quali paura, rabbia, tristezza e desiderio sessuale.

Per Hohmann, dunque, la conferma: per provare emozioni forti, è necessario avere “prima” una retroazione dal corpo ossia delle indicazioni sulle reazioni fisiologiche che vi hanno luogo. Se per lui fu una soddisfazione (!) per noi para – tetraplegici, il punto non è tanto sapere se abbiano ragione i teorici sostenitori dei processi cognitivi della mente o quelli dei cambiamenti fisiologici del corpo.

A noi interessa piuttosto sapere se il nostro modo di sentire le emozioni è davvero diverso, a parità di contesto, da quello degli “altri”, se e quanto influisce sulla loro intensità e qualità e se smorza la nostra capacità di esprimerle. Insomma per noi la domanda è: se Hohmann ha ragione, se davvero la retroazione dal corpo non suggerisce alla mente l’emozione più appropriata e proporzionata alla situazione di un certo momento e luogo, noi come viviamo il nostro rapporto con gli altri e viceversa? Come appariamo loro e come ci percepiscono? Le nostre relazioni e le interazioni sono “colorate” nel modo giusto oppure sono sbiadite o addirittura fredde?

Le espressioni emotive, infatti, sono segnali veri e propri che ognuno di noi invia, più o meno consapevolmente, per comunicare il proprio stato d’animo e atteggiamenti interpersonali. Ne emettiamo un flusso continuo tramite lo sguardo, la postura del corpo, i gesti di mani e gambe, le espressioni facciali: basti pensare al rossore del viso di chi si vergogna, allo spalancare gli occhi di chi prova una grande sorpresa o al pugno agitato per rabbia.

Se, dunque, questo continuo scambio di messaggi ci giunge falsato, noi para-tetraplegici ne abbiamo un ulteriore danno, saremmo “sfigati” due volte nel rapporto con gli altri: una per la mancanza di mobilità e un’altra perché non riusciamo ad intenderci e farci intendere bene dai normali al 100% di retroazione!

Una richiesta rivolta a noi “para – tetraplegici”

Dopo aver letto l’articolo secondo la vostra esperienza confermate l’ipotesi Hohmann?

Partecipate con le vostre impressioni nel forum su www.prodigio.it
Le risposte serviranno per integrare o, chissà, smentire un libro di prossima uscita.
Grazie a tutti per la collaborazione!

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