Autismo e terapie (Seconda parte)

Data: 01/08/02

Rivista: agosto 2002

Pubblichiamo la seconda parte del saggio inviato a pro.di.gio. da Tiziano Gabrielli, saggio che per la sua lunghezza siamo stati costretti nel numero scorso a suddividere in due parti.

Terapia Multidisciplinare non dovrebbe significare “organizzazione di deleghe” ma “intervento articolato medico – psicopedagogico – psicomotorio – logopedico – pedagogico – fisiatrico… e altro ancora”, vale a dire tutto ciò che servirebbe per occuparsi adeguatamente e compiutamente delle specifiche problematiche di quel caso persino metaboliche, uditive, visive, ortopediche, sociali, ecc.
Questo approccio multidisciplinare è ciò che di meglio esiste in teoria… ma in realtà non viene praticato.
L’approccio attuale non è multidisciplinare; è sporadico, occasionale, scarsamente coordinato e segue percorsi di “delega perpetua” (al logopedista, all’operatore, all’assistente ecc..) e di “ciclo terapeutico” che si esaurisce con il completamento di una routine procedurale (es. ciclo di sedute logopediche, ecc.) anziché con gli accertamenti dell’avvenuto ripristino della condizione in esame. Molti professionisti del territorio sono consapevoli dell’esiguità delle proposte disponibili, di fronte al problema autismo, ma sanno che queste servono comunque a calmieriare le attese dei genitori e a procrastinare il loro sconforto.
Esaurito il ciclo disponibile si estingue la proposta terapeutica perchè d’altra parte: “NON DIMENTICATE È AUTISTICO”. Che altro si potrebbe fare?
Il pregiudizio di “gravità” perseguita e immobilizza. Non si valuta con scienza e osservazione, momento per momento, la situazione… Si assimila grossolanamente la prognosi alla diagnosi. Ci si sente dire: GLI INTERVENTI SERVONO MA È ANCHE VERO CHE CON LO SVILUPPO IL BAMBINO MIGLIORERA’ COMUNQUE.

Così se ci fossero dubbi sull’utilità di “fare qualcosa”… fatevela passare. Al nulla propositivo (loro) si contrappone da parte dei genitori una martellante richiesta di aggiornamento, di informazioni su novità o sui “sentito dire” e allora improvvisamente la fascinazione terapeutica diventa TUTTO PUO’ ESSERE UTILE, QUALSIASI INTERVENTO SERVE, che praticamente non significa nulla o equivale a negare il valore di qualsiasi cosa.
Per non avere la pur minima responsabilità di quello che sarà e del proprio non operare è sempre consigliabile distribuire le responsabilità e quindi “delegare”. Chi può delegare “Supervisiona”.
3 parte: Allora la Terapia Multidisciplinare non è la Terapia Abilitativa Globale.
La supervisione vera sarebbe elemento essenziale, specie per una presa in carico multidisciplinare, cioè quella che prevede il coinvolgimento in rete di più operatori, figure sociali e familiari.
Se il neuropsichiatra che ha in carico un bimbo autistico non riesce a controllare uno psicomotricista o una logopedista (dal punto di vista professionale si intende) come pensate che possa controllare e coordinare un pool di operatori più vasto e con figure sia professionali che sociali, totalmente fuori dalle proprie competenze e poteri(scuola, famiglia, anffass ecc).
Il supervisore (il professionista incontrato nel proprio servizio sul territorio di appartenenza), dovrebbe essere il “tutor” che segue quel paziente nella sua valutazione e nella sua abilitazione.
Questa è l’utopia italiana attuale.

La multidisciplinarietà è una dote culturale tipicamente italiana, Purtroppo quando tali splendidi principi si istituzionalizzano perdono la loro leggerezza e divengono solo motivo di occupazione e di stratificazione di incarichi. Si è giunti così a ridimensionare la concretezza del tanto amato concetto di intervento multidisciplinare, “articolato”, “coordinato”, “in rete”. Questo concetto a ben vedere è anche la ragione ultima dell’accentuarsi del concetto di specializzazione e di compartimentazione degli interventi seppure coordinati fra loro. Questa logica portata alle estreme conseguenze ha validato come esaustive, complete, “globali” cure parziali, univoche, limitate come obiettivi, superspecialistiche, completamente sganciate dal senso comune di “intervento complessivo” di abilitazione o riabilitazione.

La Terapia Multidisciplinare non è dunque ciò che si intende per Terapia Abilitativa Globale.
Sarebbe quindi opportuno ridefinire il concetto di “terapia dell’autismo” e inserirlo entro parametri più precisi e limitati: terapia dello sviluppo, del comportamento, delle acquisizioni cognitive, pre-scolastiche e scolastiche, psicologica, neurologica, ecc.
La terapia di cui si parla (Terapia Ri-Abilitativa Globale) dunque riguarda specificamente il ripristino o l’acquisizione di tutte o molte delle competenze cognitivo – comportamentali di un individuo, pur nel rispetto delle possibili implicazioni in altri settori medici,neuro-psicologici, ecc.

Approccio Globale

La necessità di ridefinire l’importanza della “globalità” di un approccio rispetto ad un altro “parziale” è elemento significativo perché una volta definito introdurrebbe una gerarchia di interventi e una priorità oggettiva degli uni rispetto agli altri.
Un intervento può essere valutato sulla scorta della sua validità scientifica; sui dati in suo supporto;, sulla filosofia su cui si fonda quel metodo, sulla pericolosità del metodo, sugli obiettivi che si prefigge e il valore di questi;sui riscontri di apprendimento, ecc..
Con il termine “globale” invece facciamo riferimento a specifici aspetti di un intervento: la possibilità di applicarlo a chiunque sia iscrivibile in quella patologia; la possibilità di applicarlo in qualsiasi età e momento; ma soprattutto sulla sua quantità e qualità. La quantità è costituita da un elenco di competenze e tanto più lungo sarà quell’elenco di offerte, tanto più interessante e legittimo sarà il giudizio di “globalità” di quella proposta. Qualità invece significa che quella terapia è globale perché si fonda su un principio utilizzabile per apprendere ogni competenza. È un principio chiaro, plausibile, produttivo,aperto, estendibile ed efficace che accomuna gli operatori nel loro agire.

Intervento globale significa certamente una certa quantità di competenze da acquisire all’interno di un progetto, ma non solo. Significa contemporaneamente al numero il rispetto di molti altri parametri: la sua universalità, l’adeguatezza di ciò che si acquisisce all’età di sviluppo individuale, l’adattabilità alle situazioni, l’apertura ad altre strategie, l’armonia delle acquisizioni, la evidente priorità delle une sulle altre, l’adeguabilità ai bisogni fondamentali propri, familiari e poi sociali, la semplicità e il valore delle proposte e le ragioni che tale metodo utilizza ecc..
Le priorità di un insegnamento rispetto ad un altro, i valori oggettivi di quella competenza e la compatibilità con le attese del sociale non sono solo dati formali ma sostanziali del concetto universale di “Abilitazione”. La abilitazione non si fonda sulla capacità dei nostri figli di sorprenderci con speciali capacità ma di apprendere e saper fare ciò che serve e ciò che è richiesto dalla situazione storica e occasionale in cui vivono. Quindi richiedere una ipercompetenza isolata, parziale, anche se con valenze altamente emotive, per fare noi felici condanna loro ad un aggravamento dell’isolamento e del pregiudizio.
Inoltre una cura “globale” significa anche definire esattamente di cosa si occupa e come si controlla il risultato dell’acquisito miglioramento complessivo di quel paziente (anche per singole parti). Questo permette dunque un posizionamento delle cure e dei percorsi proposti ed effettuati in parametri scientifici di ripetibilità e di controllo.

Terapia parziale è quella che lavora su una specificità, magari bene, ma che non riguarda la complessità, che comunemente viene attribuita al termine abilitazione. Il problema non è la validità di quello specifico intervento ma il rischio che si trasformi in una unica proposta o in una realtà che fagocita ogni altra proposta essenziale e fondamentale.
Qualcuno potrebbe controbattere che attraverso quella specificità si può giungere ad una globalità. Ma questo non è mai stato dimostrato. C’è un retaggio che ci viene da una certa abilitazione del “ritardo mentale” e che indica come buona ogni proposta che veda emergere “capacità attentiva” e che esaurisce in questa emergenza il proprio lavoro. Si confonde qualsiasi attenzione prestata o richiamata (anche quella di sopravvivenza in acqua ad un delfino che ti urta o a un cavallo che si muove e non ti sostiene se non minimamente) con la capacità di “stare attento”. Tutto può essere considerato un inizio di una abilità ma estendere questa illusione (DELFINOTERAPIA-IPPOTERAPIA ecc) a ruolo di “proposta terapeutica vera” è ancora una volta scandaloso.

La capacità attentiva va insegnata come attenzione all’ambiente, alle persone, a se stessi, alle cose, agli accadimenti… attraverso la conquista di molti pre-requisiti(lo sguardo, l’indicare, ecc), e solo la continuità progressiva nella sua pratica trasformerà gli esercizi in competenze acquisite e durature. Insegnare la capacità attentiva dedicandosi ad una solo esercizio (es. battere a macchina parole) è un grave errore perché rende secondaria l’abilitazione all’attenzione all’ambiente, alle persone ecc.. Esempio: La comunicazione facilitata ha un elevato senso specifico, insegna una comunicazione non verbale, ma difficilmente quanto richiesto al soggetto, seppur significativo, lo aiuta direttamente in un’abilitazione di funzioni essenziali, quali ad esempio del controllo sfinteri… né la CF si potrebbe definire un pre-requisito essenziale a questa abilitazione comportamentale. In tale senso non sarà “terapia globale” ma bensì “parziale”, senza per questo perdere in valore e significato. Una simile terapia è quindi necessariamente secondaria, sia in termini di valore intrinseco, sia in termini di gerarchia. Magari poi si potrebbe parlare del perché la CF nasconda problematiche di dipendenza da facilitazione, di comunicazione non funzionale, di chiusura in un percorso mnemonico, di bussines di individui feroci, di opportunismi a fronte di capacità che esistono e che meglio potrebbero essere indirizzate, ecc. (…Ma già dissi e fui ucciso).
Lavorare per ridurre l’handicap e non per imporlo in altre forme.

Gabrielli Tiziano
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