Autismo e terapie

Data: 01/12/05

Rivista: dicembre 2005

Tiziano Gabrielli ci ha inviato questa amara riflessione sull’autismo fai da te, ossia sul sorpasso delle applicazioni pratiche e sui processi scientifici che le dovrebbero giustificare. Gli interventi abilitativi, oggi, sono lasciati agli spontanei “fai da te” di familiari, operatori e di “care givers” piuttosto che a rigorose analisi di postulati scientifici oppure a protocolli medici specifici.

L’autismo “fai da te” descrive un fenomeno assai complesso che costituisce la conseguenza ineliminabile delle caratteristiche della sindrome e delle attuali risposte ad essa.

Nella seconda metà degli anni ‘80 il mondo della medicina ha visto il sorpasso del “pragma” sulla “teoria”, così come più in generale quello della tecnologia sulla scienza. Nella stessa maniera assistiamo anche nella medicina all’affermarsi di metodologie e tecniche inusuali, emerse da applicazioni innovative della sperimentazione tecnologica ed informatica. In modo analogo i problemi applicativi si manifestano utili senza attendere certezze e patenti di legittimità da parte della scienza. All’interno di specifiche branche della medicina si può intravedere l’affermarsi di processi sovrapponibili a quanto appena descritto.

Nella riabilitazione, e specialmente nell’abilitazione neuro-cognitivo-comportamentale, a seguito della gravità e complessità dei casi, del susseguirsi casuale di momenti in-formativi non omogenei e a priori non-controllabili, ma anche del sovrapporsi di competenze e di ruoli, si evidenzia oggi l’irreversibile affermarsi di una progettazione a carattere incompiuto. Gli organismi competenti, gli esperti di settore, i deputati alla “presa in carico, per centralità strutturale e per limiti oggettivi di erogazione, si limitano a suggerire agli utenti di turno”, “embrioni metodologici” che poi lasciano giocoforza interpretare e sviluppare in un ambiente “patentato” a priori come “favorevole” (casa, scuola, ambienti di svago o di lavoro protetti, luoghi di accoglienza; ecc.).

Data l’opportunità di distogliere “il caso” dalle istituzioni sanitarie per immetterlo precocemente “sine cura” nel sociale, sulla base di quanto legiferato per il processo di integrazione, tale prassi è diventata comune. Sulla base di un’elevata compartimentazione nelle competenze, quando resta difficoltoso il lavoro in rete, o interessi estranei al problema divengono prevalenti, si affermano veri e propri “shunt” operativi e rispetto a qualsiasi logica procedurale o di seria sperimentazione prevale il lasciar “fare”. Sappiamo tutti in quale modo “gli ufficialmente nominati” possano latitare attorno al problema, oppure rivestirlo di festanti girotondi formali, dando l’avvio ad interventi “ufficiosi” per poi regolarmente condannarli non sulla base di un’autocritica operativa, ma sul risultato degli stessi, senza mai un’analisi dettagliata di quanto è recuperabile, utile, corretto, inadeguato, inopportuno.

Dobbiamo considerare che ci si trova a dover intervenire comunque e gioco forza, persino in mancanza di basi teoriche minime, dove prevale il “fare” o ciò che quel fare consente o realizza…non il “capire” secondo progettualità validate.

Nasce così inconsapevolmente un’anti-scienza, perché delegittima un’ortodossia della scienza ufficiale attraverso una perdita di autorevolezza delle guide, dei responsabili, e al contempo consolida una scienza “bricolage”, poco agganciata a quanto proposto inizialmente e scarsamente fedele ai principi che l’hanno suggerita. È interessante osservare che il “bricoleur”, in genere il genitore, o l’insegnante di sostegno, preoccupato di intervenire, pone ad un livello secondario il comprendere perché si faccia quella determinata scelta o perché si esegua una specifica procedura, o cosa realmente ci si possa attendere da essa. Si limita a proporre quanto visto e appreso e ad osservarne i risultati, correggendo il tiro in un “work in progress”, un’abilitazione auto da fé. Lo scienziato e il bricoleur sono entrambi alla ricerca di conoscenza, sennonché il bricoleur rispetto al primo si allontana dai postulati e dagli argomenti degli esperti. Egli utilizza ed esplora messaggi non espliciti, mere ipotesi, vista la naturale reticenza degli specialisti a pronunciamenti su questioni non ancora sperimentate. L’autodidatta è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati (Levi- Strauss, Pensiero selvaggio “Sulla scienza del concreto”). La sua attività si avvale di un universo strumentale finito, mai subordinato al possesso di particolari arnesi riconosciuti come specifici. Egli realizza in economia il suo progetto, adattandosi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, utilizzando in modo non canonico qualsiasi tipo di strumento e di materiale gli offra la situazione, anche se è destinato a usi diversi e i suoi prodotti sono spesso inediti e mettono in relazione oppure collegano occasionalmente discipline lontane tra loro..

Gli effetti di questa supervisione “mordi e fuggi” sul percorso abilitativo individuale, sono logicamente imprevedibili e si sviluppano in direzioni difficilmente controllabili e con dati scarsamente sovrapponibili per le enormità di variabili consentite. Il silenzio istituzionale, forse anche annichilito dall’inutilità delle esperienze tradizionali attorno a questa situazione, ha impresso un’accelerazione fortissima alle pratiche individuali.

Alla luce di queste considerazioni appare appropriato l’uso del termine “bricolage” per indicare tutto ciò che non sa di programmazione organica e razionale, tutto ciò che sfugge ad una codifica, a un protocollo che consenta l’inclusione, la registrazione e la valutazione di quanto reclutato, effettuato e dei relativi risultati. Conseguentemente anche qualsiasi proposta di monitoraggio degli interventi effettuati, in ambiti scientifico, desta forti perplessità, indipendentemente se vede coinvolti sottogruppi arbitrariamente definiti, luminari integerrimi, università, aziende sanitarie o quanto altro politicamente utile per ottenere finanziamenti pubblici, e all’interno di questi progetti non si intravede altro scopo rigorosamente dimostrabile.

Ogni proposta “terapeutica” viene scrutata e soppesata, adattata e filtrata al proprio caso, senza più un ordine. In mancanza di finalità coscienti, si trasforma in qualcosa di improvvisato, non più originario, né più trasferibile. Intenzionalità, strategie, azioni e risultati hanno legami deboli, come deboli sono le connessioni tra metodi e materiali usati e risultati ottenuti, non più confrontabili con dati precedenti. Lo sviluppo di un programma ai margini di un nucleo originario solo enunciato, abbandonandolo, riprendendolo e ricombinandolo in modo invisibile al di fuori dei programmi ufficiali produce un processo incoerente di ri-combinazione e trasformazione delle procedure, senza fine. Le successive stratificazioni strutturali di questi singoli momenti di un intervento “improvvisato” assomigliano più agli esiti irreversibili dei meccanismi dell’evoluzione biologica o del processo storico che al risultato di un processo culturale organizzato, costruito attorno alle leggi sull’integrazione a tutela delle persone con disabilità.

Tali personalissime esperienze divengono spesso progetti operativi proposti a livello editoriale, senza riflessioni o teorie a sostenerli. Ora questo andamento, al contrario di quanto sta accadendo per la tecnologia rispetto alla scienza ingenieristica ed informatica, purtroppo non produce “regola”, neppure a posteriori. L’interpretazione a posteriori degli esiti produce sempre meccanismi, strutture e significati che rivoluzionano alla base lo schema scientifico. Il centralismo scientifico cede il passo al localismo operativo.

Le oggettive difficoltà nel praticare un intervento. Le scarse conoscenze, la difficile gestione quotidiana, l’enormità delle energie necessarie, l’aiuto esterno inesistente oppure incompetente, la necessità di un coordinamento tra i care-giver, ecc.

L’inefficacia in senso relativo di qualsiasi pratica.

Prendendo in considerazione che quanto sino ad oggi, di tutto ciò che è stato sperimentato, si è rivelato di una certa utilità, per una soluzione positiva della sindrome autistica, è confinato esclusivamente nell’educazione, la speciale educazione chiamata neuro-cognitivo-comportamentale, e che questo strumento, seppur modificato dalle diverse scuole di pensiero, è noto da oltre trent’anni, si deve concludere che è strano trovi ancora così elevata resistenza ad imporsi.

Non si tratta semplicemente eccesso di attese, nè di oggettiva difficoltà nella sua applicazione, nè di scarsa efficacia in senso assoluto ma è pur vero che queste esperienze possono evidenziare anche insuccesso, una certa rigidità degli apprendimenti, incomprensibili momenti di regressione, perdita di abilità ritenute acquisite, mancata generalizzazione, affermazione di problematiche comportamentali inattese quanto gravi, tanto da poter dire che “anche” in tale pregevolissima dimensione “qualcosa non funziona”.

la difficoltà individuale e collettiva di trasformare l’esperienza della disabilità cognitivo-comportamentale in una dimensione non-soggettiva.

Le caratteristiche dei singoli casi, delle condizioni ambientali e sociali, il loro andamento spontaneo e più in generale un certo miglioramento (più o meno reale) con l’età del soggetto; il variare delle competenze e delle attese dei familiari, le tipologie e le modalità degli interventi, le specifiche produzioni di risposte comportamentali. I diversissimi percorsi abilitativi sono così peculiari e diversificati da determinare in questa patologia un particolarissimo arroccamento nel “personalismo”. Non solo l’autismo di ciascun figlio è sempre vissuto in modo scarsamente obiettivo ma spesso viene eretto una sorta di muro di gomma sino al realizzarsi del più completo isolamento per l’impossibilità oggettiva di trasferire le proprie difficoltà personali in aumento progressivo.

Il bricolage diviene l’unica strategia d’azione in condizioni di incertezza e in mancanza di proposte significative.

Conclusioni

Impossibile modificare il “bricolage” nell’autismo.

Il fenomeno dell’”Autismo fai da te” è ancora tutto da interpretare e richiede comunque un serio esame che consenta la sua comprensione profonda, l’attribuzione di nuovi limiti, l’individuazione di pregi e benefici e soprattutto l’individuazione di spazi interni al processo che consentano di valorizzarne gli aspetti ineliminabili.

Abbiamo bisogno di abbandonare la dimensione statica, centralizzata, quella dell’equipe di esperti che attende il caso e che lo gestisce dal “trono”. Certamente tollerabile in ua dimensione squisitamente diagnostica (assessmente e valutazioni) ma si dovranno definire con maggiore chiarezza i protocolli, gli spazi, i modi e le scadenze delle valutazioni periodiche.

Si dovrà individuare chi propone l’abilitazione, in cosa consiste, chi la effettua, chi la esegue e la gestisce, ridefinendo i singoli ruoli nella rete.

Si deve giungere ad una dimensione dinamica centrifuga della presa in carico “reale”, non come esito dello scarica barile, ma come individuazione di responsabili precisi di quanto si intende realizzare.

Forse non tutti sanno che la scienza “moderna” non ha il compito di capire e spiegare la realtà con la “ragione”, ma piuttosto di produrre “modelli” che simulino l’andamento del fenomeno studiato. È una affermazione che potrà stupire ma così è: più le cose sono complesse più si deve fare ricorso a modelli teorici, possibilmente sperimentali e matematici, che le descrivano.

Sarebbe dunque importante recuperare alcune delle esperienze che possano fungere da “modello” in quanto prodotto eccellente.

La prassi nella documentazione va suggerita sapientemente (pretesa) a chi si misura in maniera non episodica con l’autismo o altre malattie pervasive dello sviluppo (genitori; familiari; operatori, scuola…).

Si debbono impegnare i caregiver ad una documentazione video del loro lavoro per giungere ad una correzione in progress ma anche a proporre dei modelli fondati sulla qualità dei risultati, che pertanto divengano facilmente trasferiti ad altre famiglie.

Gli esperti debbono assicurare un ruolo di supervisor o di consultant e spostarsi, permanendo nelle singole realtà per insegnare “come” abilitare; mentre potranno effettuare valutazioni periodiche (sicuramente sovrapponibili per tipologia e modalità di somministrazione) in sedi centralizzate.

L’analisi e la comparazione diretta ed esplicita delle tecniche e dei metodi consentirebbe una più facile transizione del loro reale valore e validità senza scontrarsi su piani diversi (teorie) e meno accessibili a tutti rispetto a quelli pratici. Questa modalità consente ai caregiver l’opportunità di formarsi anche attraverso una lettura critica del proprio operato, in stretta aderenza alle proprie problematiche, con incontri successivi in sedi opportune e strutturate allo scopo, consentendo loro un auspicabile incremento delle competenze, dei successi, dell’orgoglio personale e professionale in una dialettica costruttiva e pubblica con i fruitori. Non perseguiamo lo scopo di compartecipare soluzioni del problema “esaustive, radicali o miracolose” ma semplicemente aiutare gli operatori a non sentirsi isolati all’interno della propria azione didattica “in divenire”, aprendo loro un orizzonte di riferimento più accattivante.

Questo per avviare una abilitazione moderna decentrata, rispettosa delle energie erogabili, degli intenti, delle esigenze e cultura di ciascuno. Un’abilitazione che si avvalga dell’intuizione, ma che sia capace di riconoscere prontamente e costruttivamente i fondamenti e certe situazioni limite, inopportune se non proprio “paradossalmente” gravi, che altrimenti, magari inconsapevolmente, si tollerano e si ri-producono.

Bisognerebbe chiedersi se la “Big Science” sia sempre necessaria, se la gestione accentrata di ogni aspetto che riguardi la Salute possa ancora sussistere all’interno di proposte che di fatto consentono la libera scelta individuale di ciò che s’ha da fare o non su terzi. Il vuoto propositivo che la scienza minaccia di lasciarsi dietro va presto colmato cercando di rinunciare intelligentemente a modi rigidi e improduttivi di gestire una situazione divenuta complessa e diversificata. Questo lavoro sui protagonisti, sul materiale ottenibile dalla periferia, dal territorio, serve anche a semplificare l’operatività, rendendola efficace e subito pronta, a migliorare l’immagine degli esperti e non significa necessariamente banalità o eccesso di prassi ma piuttosto controllo reale di essa e possibilmente formazione reciproca a tutela delle persone con disabilità.

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