Autolesionismo

Data: 01/10/02

Rivista: ottobre 2002

L’autolesionismo viene in genere definito clinicamente come il tentativo di causare deliberatamente un danno al proprio corpo, lesionandosi in modo di solito abbastanza grave da provocare danni tessutali. Si tratta di una vera e propria patologia, indicata da alcuni con il termine Deliberate Self Harm Sindrome (“Sindrome di auto-ferirsi intenzionalmente”), da altri Complex post-traumatic stress disorder (Disturbo post traumatico da stress o PTSD), Repetitive Self-Harm Syndrome (Sindrome da auto-lesionismo ripetuto) oppure Multiple personality/dissociative identity disorders (Disturbi di personalità multipla/identità dissociativa o MPD/DID). Molti di questi individui si definiscono semplicemente “Cutters” (Tagliatori) ed alcuni chiamano quello che fanno SI o self-injuried (auto-lesionismo).

Ci sono tre tipi di autolesionismo: la forma fortunatamente più rara e più estrema è l’automutilazione maggiore, che dà deturpazione permanente come per esempio castrazione o l’amputazione di un arto. Un’altra forma è l’automutilazione stereo tipica che di solito consiste nel picchiare violentemente la testa, premere fortemente le orbite e mordersi. La terza forma più comune è l’auto mutilazione superficiale che di solito comprende tagliarsi, bruciarsi, strapparsi i capelli, fratturarsi un osso, urtare, impedire che una ferita rimargini e fondamentalmente ogni altro metodo usato per ferirsi.

Ci si vergogna di ammettere di essersi volutamente feriti, per paura di non essere capiti, di essere giudicati negativamente (“Sei una sciocca”, “Vuoi solo attenzioni”) o addirittura relegati immediatamente nella categoria pazzi. Invece non c’è nulla di cui vergognarsi, sia perché gli autolesionisti non sono pazzi, sia perché tale fenomeno è più comune di quanto si creda, in forma patologica e non. Il fumo, l’assunzione di stupefacenti, il rosicchiarsi le unghie, l’affamarsi e poi abbuffarsi e vomitare, l’imporsi esercizi ginnici fino allo sfinimento possono considerarsi forme poco manifeste, ma molto subdole del fenomeno.

Spesso si presenta in concomitanza con altri disturbi psichici (in particolare sindromi maniaco depressive e disturbi del comportamento alimentare). «Questo divenne il mio regolare schema: affamarmi fin tanto che era possibile, abbuffarmi, provare a vomitare, fallire e così tagliarmi il braccio». In genere però la presenza è alternata: quando ci si abbuffa e si scarica lo stress in quel modo, non ci si taglia o autolesiona in altro modo e viceversa. «Dopo due o tre settimane, scoprii che non avevo più bisogno della pre-abbuffata per tagliarmi… infatti il solo ferirmi fisicamente poteva impedire l’abbuffata».

Una recente statistica fa ammontare 5% chi soffre di tale disturbo. Tutta la popolazione ne è coinvolta, indipendentemente dall’età, dal grado di istruzione e dalla classe sociale; le donne risultano le più colpite. Molti degli autolesionisti tendono ad essere perfezionisti, incapaci di gestire e di manifestare verbalmente intense emozioni. Non si piacciono, odiano il proprio corpo e possono avere gravi sbalzi d’umore. È possibile che abbiano subito abusi sessuali o violenza psicologica nell’infanzia, ma non è un carattere predominante.

La domanda più frequente è: perché? Non è facile trovare una risposta unitaria, dato che ogni persona ha un proprio motivo. Ci si ferisce per scaricare lo stress: il sangue che esce, il corpo mutilato ed il dolore fisico quietano lo stress. Tutti i sentimenti che imperversano all’interno e che non si è in grado di lasciar uscire, si allontanano insieme al sangue, insieme all’arrivo del dolore («Osservando il sangue uscire dal mio braccio, potevo sentire la tensione che mi lasciava. Come una valvola di scarico in una pentola a pressione, lasciar uscire il sangue mi avrebbe calmato»). È un tramutare in sofferenza fisica quindi più facilmente gestibile, più reale una sofferenza emozionale impalpabile, ma presente che non si sa come gestire. Per un po’ ci si occupa solo del dolore fisico, distogliendosi temporaneamente da quello interiore. Può essere un modo anche per mostrare agli altri che si sta davvero soffrendo, offrendo loro qualcosa di concreto e di comunemente accettato come “dolore”. Ancora è possibile che ci si senta talmente morti dentro, talmente apatici dal ricercare nella sofferenza fisica una prova che si è ancora vivi.

Imparato a gestire il dolore interiore in questo modo, ci si abitua, non potendone più fare a meno. («Improvvisamente la mia vita sembrava maneggevole. Potevo controllare il dolore, e seppi che nessuno poteva ferirmi più di quanto io potevo ferire me stessa. Ero anche orgogliosa di poter essere così forte! Questo mi fece sentire meglio di come mi sentivo da lungo tempo»).

Qualche mito da sfatare: l’autolesionista non è un pericolo per la società: la violenza è sempre e solo rivolta verso di sé, mai verso altri. Né ritratta di un individuo pericoloso per se stesso: al contrario delle credenze comuni l’autolesionismo non è un tentativo di suicidio, quando un modo di affrontare la vita.

È una patologia curabile tramite terapia farmacologia allo scopo di diminuire lo stress, ma risulta fondamentale anche l’integrazione di una terapia psicologica per capire il disagio profondo che si nasconde dietro l’autolesionismo. Raramente è richiesto il ricovero ospedaliero, se non nei casi più gravi dove sono necessarie continue somministrazioni di farmaci. L’autolesionista non è un pazzo, non è uno sciocco, non è un violento verso gli altri, non è un immaturo. L’autolesionista è semplicemente una persona che cerca giustamente di scaricare lo stress, avendo trovato un modo errato per farlo.

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