Nel numero di ottobre del 2004 avevamo parlato di “nuovi trentini”, di quelli arrivati qui su qualche costa, alla spicciolata e senza alcun ordine programmato. Forse a qualcuno sembrerà inaccettabile che chiunque voglia entrare in Italia arrivi e venga poi trattato magari con i guanti bianchi, servito, riverito, casa pubblica, ecc.
Vi siete però mai chiesti perché tanti scommettano la vita (e spesso la perdano) per venire fin qui per vivere sotto un ponte o in un sottoscala, sottopagati e discriminati?
Ebbene, a questa domanda offre un perché molto chiaro padre Giuliano Pisoni, da ben più di trent’anni missionario in Africa. Lo fa in un articoletto pubblicato sul giornalino, il terzo numero del 2006, redatto da lui stesso e spedito ai suoi sostenitori (finanziatori e non!) in Italia per sensibilizzare sui problemi dell’Uganda, Paese dove svolge la sua missione.
Sotto il sole a picco delle due pomeridiane, quando il caldo è intollerante, attorno alla pompa dell’acqua nel campo profughi di Lacor, donne e bambini stanno in coda immobili. Sono lì dall’alba. Il campo ha un’unica pompa ed i profughi sono quasi 12.000. I ragazzi che conquistano il primo posto, si buttano a corpo morto a spingere sulla pompa. Occorre fare in fretta per tirare su una tanica di acqua. D’altronde c’è anche chi sta peggio. In altri campi, un solo pozzo serve per 4.000 persone e in 4.000 condividono una latrina.
Olara Otunnu, ex sottosegretario generale dell’Onu, ci dice che 1000 profughi di etnia acholi muoiono ogni settimana nei 200 campi del Nord Uganda: 50.000 l’anno e di questi, oltre un terzo sono bambini.
La mortalità infantile nei campi è di 172 per 1000, forse la peggiore del mondo. Si muore di malaria e di dissenteria più che di AIDS, che qui fa registrare il 13% di sieropositivi contro il 6% medio del Paese. Il campo è un agglomerato di capanne di fango vicinissime fra loro. Dentro solo una pentola e tre sassi come fornello. In cinque metri quadrati dormono in otto. Il cibo viene distribuito ogni due mesi. Il 40% dei bambini è denutrito. Sbucano da tutte le parti quando arriva uno straniero, si spingono ed attendono una caramella o una moneta.
Per ultime arrivano le ragazzine più grandi, che già portano sulla schiena il fratellino. Cenciosi e sporchi hanno negli occhi scuri uno splendore: paiono attendere ancora che accada qualcosa di buono.
I vecchi, consunti a sessant’anni come se ne avessero cento e le donne con i lattanti non si alzano dalla soglia della capanna all’arrivo degli stranieri.
Sembrano rassegnati, tra le mosche, nel tanfo, a continuare a vivere così con i loro figli. Dopo vent’anni di guerra civile e le infinite atrocità dei ribelli di Kony. Dopo che i loro villaggi sono stati attaccati e 20.000 giovani sono stati portati via, anche i più ostinati sono stati convinti dai bombardamenti dell’esercito regolare a rifugiarsi nei campi.
Campi per profughi, come le definisce il governo o campi di concentramento per un lento sterminio? La etnia Acholi non è amata dal resto dell’Uganda. Antichi ricordi tribali e recenti rancori risalenti alla dittatura di Idi Amin e al colpo di Stato di Okelo sono ancora ben vivi.
I ribelli sono dei folli criminali, per di più appoggiati dal Sudan islamico. Ma era davvero impossibile, in vent’anni e con un esercito organizzato come quello ugandese, avere la meglio? E ora, con Kony e i suoi ridotti a poche centinaia, sarebbe davvero impossibile ristabilire la sicurezza?
Afferma Monsignor Franzelli, vescovo di Lira: Forse non è genocidio ma, nei fatti, a ciò che accade nei campi del Nord Uganda è ben difficile trovare un altro nome. Qui troviamo un processo di distruzione della persona: gente che una volta lavorava e mandava i figli a scuola, ora è costretta a chiedere l’elemosina, a non fare niente tutto il giorno, senza prospettive.
C’è da meravigliarsi se, in tale disperazione, proliferano gli abusi sessuali, le violenze e l’Aids? Questa gente sempre più spesso è incline al suicidio.
Annuisce un giovane prete locale: Lo fanno i giovani perché non hanno speranze e le vedove perché non sanno come sfamare i figli. Si uccide anche per cosa da nulla. Ogni campo ha una guarnigione di soldati che dovrebbe proteggere i profughi ma le ragazze li temono a causa delle violenze fatte proprio da loro. Una giovane vedova ci fa vedere i suoi quattro figli. Questi cosa mangiano? È una donna sola e in queste condizioni che cosa può fare se non vendersi?
Il campo profughi ti resta addosso con un orizzonte cieco. Eppure lo sguardo ti cade su un’altra capanna, i cui bambini paiono veramente troppi. “Non sono tutti nostri, – spiega la donna – abbiamo preso con noi gli orfani di una vicina morta di Aids. Allora capiamo meglio quello che ci ha detto il vescovo di Lira: Il regno di Dio e anche qui. Il regno di Dio cresce anche in mezzo al fango!”.