Il 27 aprile si è tenuta la presentazione del libro “Passi di civiltà – Percorsi alternativi per una ridefinizione della detenzione femminile”. L’evento, organizzato da Apas, ha portato a Trento due delle autrici: Maria Pia Giuffrida, ex dirigente del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) e l’educatrice penitenziaria Augusta Roscioli; le quali hanno illustrato la realtà carceraria femminile e le sue criticità, portando alla luce tematiche e difficoltà che spesso passano in secondo piano rispetto alla realtà maschile, vista la più alta presenza di uomini negli Istituti di pena.
L’apertura dei lavori è stata l’occasione per conferire al Presidente di Apas Bruno Bortoli il “Premio Solidarietà 2013”, istituito dalla Fondazione Trentina per il Volontariato e consegnato dalla Vice Presidente Luisa Giuliani Chiomento, come riconoscimento per il progetto “Sportello in carcere”, tutt’ora portato avanti da un gruppo di volontari, scelto come vincitore dalla Commissione che ne ha riconosciuto “..la volontà di affrontare con solidarietà umana, prima ancora che impegno istituzionale, una delle condizioni più dolorose dell’attuale momento storico e sociale, caratterizzato da un alto numero di detenuti dalle provenienze più diverse, spesso sradicati dai loro contesti di vita.”
Ad introdurre il convegno è stata invitata a parlare la dottoressa Antonia Menghini, docente di Diritto Penitenziario presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento, che ha analizzato la situazione carceraria italiana degli ultimi anni, mettendo in luce alcuni degli aspetti positivi che hanno coronato gli sforzi compiuti a livello nazionale per arginare i gravi problemi che affliggono questa realtà da troppo tempo. Una nota positiva arriva dai dati sul sovraffollamento, sceso notevolmente dal 2010 ad oggi grazie soprattutto all’implementazione delle misure alternative, segnale importante che rianima la speranza di quanti, ogni giorno, devono affrontare le difficoltà che la detenzione genera nelle persone e nella società in generale. La realtà italiana però si caratterizza ancora oggi per la massiccia presenza di soggetti in attesa di giudizio, mentre la maggior parte dei soggetti condannati in via definitiva sconta una pena per reati contro il patrimonio o legati agli stupefacenti, con una durata media di circa 5 anni.
Il tema centrale della presentazione è stato invece trattato da Maria Pia Giuffrida, 30 anni di esperienza nel campo dell’amministrazione penitenziaria, da assistente sociale a provveditore, che le hanno permesso di conoscere a fondo e da diversi punti di vista i problemi di chi è ristretto. L’autrice del libro ha analizzato accuratamente la situazione delle donne detenute, una percentuale molto ridotta rispetto alla popolazione totale degli istituti di pena, ma non meno importante per la peculiarità della situazione e per il diverso trattamento che dovrebbe caratterizzarne la permanenza in carcere.
Le maggiori criticità riguardano la carenza, se non addirittura la mancanza di proposte culturali, lavorative e scolastiche offerte alle donne; l’unico istituto superiore in cui poter proseguire gli studi è a Genova, e mancano completamente le opportunità universitarie, a cui possono accedere solamente gli uomini, con ampia scelta in tutto il territorio statale.
Il tentativo di adattare le regole usate per la detenzione maschile, atte maggiormente a contenere l’aggressività dal punto di vista fisico e mutuate ciecamente all’universo femminile, rende questa situazione ancora più difficile in quanto va implicitamente a negare i diversi bisogni di queste persone.
Conseguenza dell’esiguo numero di donne, che si aggirano intorno alle 2.000 unità, è anche la presenza di molti meno istituti di pena, che obbliga spesso ad un allontanamento dal territorio di appartenenza, con il conseguente venir meno del contesto familiare che è sempre di grande appoggio in queste situazioni.
Un argomento in particolare ha animato le relatrici durante il convegno, ossia l’ancora più marginale realtà delle madri in carcere con i loro bambini.
Il riconoscimento del valore della maternità permette alla madre detenuta di accudire il proprio figlio, vittima in cella senza reato. L’ambiente in cui il minore si trova a crescere non è infatti adatto al suo sviluppo e per questo motivo è stata approvata nel 2011 una legge che istituisce gli I.C.A.M. (Istituto a Custodia Attenuata per Madri), case famiglia protette alternative al carcere in cui le donne ristrette possono allevare i bambini fino all’età di 6 anni.
Il primo problema è però rappresentato dall’eventuale separazione tra madre e figlio, qualora raggiunti i 6 anni di età non le vengano concesse misure alternative per uscire dall’istituto e in secondo luogo un problema pratico della presenza sul territorio italiano di un unico ICAM, presente a Milano e non ancora replicato altrove.
Appare chiaro che anche in questo caso la chiave di volta risieda nelle misure alternative, le sole in grado di tradurre in essere le esigenze di riavvicinamento alla società e di responsabilizzazione della persona cui il carcere non sa rispondere.
Fonte: “Oltre il muro – Reinserimento e alternative al carcere” notiziario APAS