Il dilagare delle tossicodipendenze e le relative preoccupazioni politiche (nuova legge sulla droga) e soprattutto sociali (la droga è tabù nel senso di male) hanno relegato, da almeno 20 anni, in secondo piano il problema dell’alcolismo, fenomeno la cui gravità nel nostro paese è certamente ben maggiore.
Di drammatica evidenza quotidiana è infatti l’azione distruttrice dell’abuso di alcol sull’organismo, cervello e fegato in primis, e sulla personalità: patologie organiche e psichiche dai livelli altamente invalidanti e causa migliaia di morti.
Lo stereotipo però dell’alcolista quale individuo derelitto, che cammina barcollando e spesso domiciliato per strada dove sopravvive, con piccoli espedienti, come i nostri barboni da strada a Trento, è fuorviante e non corrisponde alla realtà.
L’assoluta maggioranza vive una vita normalissima, ha famiglia, una casa ed un lavoro, amici ma solo chi li frequenta assiduamente si accorge del problema, capisce che “quello” beve. L’alcolismo è trasversale ai ceti sociali o alle categorie professionali, non si beve di più o di meno perché si è impiegati piuttosto che artigiani oppure di buona famiglia anziché no. Tutti, però, finiscono per manifestare inefficienza e inadeguatezza di fronte alle responsabilità ed ai propri compiti.
La prima a subirne le conseguenze è la famiglia dove l’alcol dipendente riverbera il proprio disagio in varia misura a partire dai silenzi carichi di astio ai maltrattamenti fino al calo del tenore di vita cui, dall’altra parte, si risponde con rabbia repressa, evitamento e vergogna. I figli, a loro volta deprivati di un modello familiare valido e socialmente accettabile, subiscono queste influenze traumatiche e distruttive andando incontro ad uno sviluppo abnorme della personalità. In loro compaiono frequentemente atteggiamenti relazionali e modalità di comportamento di tipo nevrotico o psicopatico.
Altro aspetto preoccupante, l’abitudine a bere viene trasferita spessissimo ai figli: oltre il 50% degli alcolisti ha, oppure ha avuto, uno od entrambi i genitori affetti dalla stessa patologia.
Oltre ai livelli più espliciti di dipendenza quali l’etilisimo, nelle regioni del Nord Est come la nostra dove una forte assunzione di alcolici è da sempre accettata e tollerata, spesso si sviluppo dipendenza senza che il soggetto alteri in modo evidente il proprio comportamento. Di conseguenza diventa ancor più difficoltoso programmare un intervento terapeutico.
Per questo, ancor più di tutte le altre dipendenze, quella dell’alcol in genere non è accettata né riconosciuta. Basti pensare che si può pacificamente considerare come psicologicamente dipendente dall’alcol il soggetto incapace di trattenersi da esso senza alcuno sforzo per un periodo di 6 mesi.
In termini psicoanalitici nel soggetto alcol-dipendente l’Io ha subito una regressione a stadi precoci di sviluppo. L’euforia artificiale prodotta dall’alcol ristabilisce il principio di piacere, in armonia al quale funziona alla vita affettiva originaria del bambino. Ne riduce le capacità concettuali, cognitive e biologiche facendolo regredire ad uno stato di dipendenza dalla madre sulla base dell’equivalenza alcol = seno = buono.
Scorrendo l’elenco del telefono di Trento, 107 mila abitanti, si contano circa duecento bar: uno ogni cinquecento persone. Accanto ai clienti occasionali, ce ne sono altri che bevono alcolici in modo più sistematico per motivazioni difficilmente identificabili: fattori individuali, familiari, professionali, sociali ed ambientali oppure una patologia causano o concorrono ad abusare dell’alcol.
Le oscillazioni dell’umore della personalità depressiva possono essere responsabili di periodici ed occasionali abusi di alcol. Queste circostanze sono dunque il sintomo che nasconde o maschera una condizione affettiva alterata.
Generalmente si ammette che un uomo su dodici al di sopra dei vent’anni sia un alcolista con un rapporto maschi – femmine di 5 a 1!
Purtroppo le statistiche non descrivono il fenomeno nei suoi effetti collaterali perché non registra le morti per guida in stato di ebbrezza, gli omicidi-suicidi, le morti per patologie correlate all’abuso di alcol. Quasi giornalmente nei reparti di medicina degli ospedali trentini muore qualcuno a causa di cirrosi epatica, epatocarcinoma ed altro.
Insomma l’alcol è una droga a tutto tondo, anzi, ben peggiore delle stesse droghe ufficiali ma, per motivi già accennati su queste colonne, si finge di non vedere!
Abbiamo una cultura ed una economia nazionale che fa molto conto sulla viticoltura. La nostra stessa Provincia finanzia, a fondo perduto, le cantine vinicole con miliardi per favorire un consumo di vino sempre più capillare e diffuso: incentivi, pubblicità (ricordate Trentino fa rima con vino?), percorsi culturali, itinerari consigliati (le varie strade del vino), mostre, vernissage e quant’altro. Ultimamente persino la Sanità e la Medicina ufficiale affermano di avere prove scientifiche che: “Due bicchieri di vino al giorno fanno bene” perché ossidano i radicali liberi. Un dubbio, dotti del Ministero della Sanità: è forse l’alcol ad ossidare i radicali liberi? Se affermativo, inserite l’alcol nel prontuario farmaceutico e curateci tutti senza lasciare nessuno al “fai da te” della bottiglia. Una domanda: perché non propagandate con altrettanto zelo il succo d’uva ormai in vendita in ogni negozio e con gli stessi principi organici e salutistici del vino ma assolutamente privo d’alcol?
Una piccola riflessione ed avrete la risposta esatta!
Trentino: montagne, polenta e luganeghe e un buon bicchiere di vino. Equazione forse un po’ banale e limitante ma comunque inconfutabile.
Sulle montagne non ci sono dubbi, sulla passione dei trentini per i piatti sostanziosi (sarà l’aria salubre di alta quota…) nemmeno ma è sull’inclinazione all’alcol che ci vogliamo soffermare. E non a caso. È recente infatti la notizia secondo cui la media della nostra regione in quanto a ubriachi al volante è la più alta d’Italia. E già ad inizio 2004 i quotidiani locali avevano pubblicato un’inchiesta sull’aumento vertiginoso del consumo di bevande alcoliche tra giovani e giovanissimi.
Insomma, brutte notizie. Vada per le calorie della luganega e anche per un sano bicchiere di rosso ai pasti (che, ce lo dicevano sempre i nostri nonni, fa buon sangue e se ce ne fosse stato bisogno adesso ce lo confermano anche i dottori) ma l’alcolismo è qualcosa di molto diverso. Alcolismo significa degrado della società, significa piaga sociale, significa soprattutto che nella nostra città tanto ricca, protetta e incontaminata c’è qualcosa che non va.
Sapere che più della metà dei giovani di Trento il sabato sera lo passa a bere, significa avere davanti agli occhi il disagio di un’intera generazione. Non siamo qui a dare giudizi e a fare i soliti allarmismi ma non si può far finta di niente davanti a un fenomeno che purtroppo non è nuovo dalle nostre parti. Anzi, nel nord est da sempre l’alcol è stato parte integrante della tradizione e della cultura. È un fenomeno che, a differenza ad esempio della dipendenza dalle droghe, viene affrontato spesso, se ne parla molto ma sempre con quell’aria del tipo “cosa vuoi che sia per una ciucca ogni tanto”! In fondo i genitori di un ragazzo trentino che durante il weekend torna a casa un po’ alticcio, poco stabile sulle gambe e con l’alito non precisamente profumato, da giovani hanno fatto la stessa cosa e non ne fanno un dramma. Effettivamente la sbornia passa il giorno dopo, magari a costo di qualche attacco di nausea e di emicrania fulminante, ma passa. Ma i danni collaterali non sono pochi e non solo in termini fisici. Il rischio non è solo quello di andarsi a schiantare con la macchina ma anche quello di non riuscire a fare a meno di quella spinta in più che un superalcolico può dare per divertirsi. E le serate di molti ragazzini della nostra regione purtroppo sembrano proprio poter decollare solo se condite da una belle bevuta in compagnia. Vero è che a Trento di spazi per i giovani ce ne sono pochi, anzi pochissimi, per chi rimane in città senza macchina le alternative non sono un granché e le iniziative per ravvivare la serata dei teenager trentini non sono molte. Abbiamo forse caratterialmente più difficoltà di tanti altri nostri coetanei di altre zone d’Italia a socializzare e a lasciarci andare, per aprirci abbiamo bisogno di perdere un po’ di freni inibitori. Ma non è una scusa buona per attaccarsi alla bottiglia! Una birra in compagnia non ha mai fatto male a nessuno e alzare un po’ il gomito può capitare a tutti. L’importante è che non diventi un’abitudine ne tantomeno l’unico passatempo per un sabato sera da ricordare.
Elisa Zancanella