Che cosa si aspettano dalla scuola (e non) due mamme di bambini disabili

Autori:Redazione

Data: 01/12/00

Rivista: dicembre 2000

Avevamo presentato nel numero precedente l’associazione “Genitori in prima linea” e spiegato le ragioni del loro impegno riservandoci di riprendere l’argomento più avanti, dopo averli contattati. Così è stato e a metà novembre abbiamo raggiunto con alcune telefonate due mamme del gruppo per verificare se la situazione da loro resa pubblica, se le carenze, per non dire negligenze denunciate, avessero avuto una risposta adeguata da “chi di dovere”, se nuove modalità di cura fossero state adottate, se la scuola avesse cambiato passo.

Un’ora di telefonata dalla quale, diciamolo subito, non è venuto alcuna indicazione positiva. Hanno ribadito le preoccupazione per i figli lasciati a scuola alla buona volontà degli insegnanti e quasi trascurati da chi dovrebbe occuparsi dei loro problemi specifici. Una psicopedagoga (laurea in pedagogia o psicologia) dovrebbe predisporre dei percorsi pedagogici coordinandosi con una neuropsicologa presente in ogni distretto scolastico ma quest’ultima non si fa praticamente vedere mai “sul campo”, rimane in qualche ufficio. Lamentano poi l’inserimento dei ragazzi in aule sovra affollate, fino a 29 alunni per classe, nonostante le indicazioni contrarie suggerite dall’esperienza: «solo per risparmiare due lire!» commenta una con durezza. Seguono altre osservazioni sconfortanti sui trasferimenti, sulla burocrazia, le sue lentezze e tempi morti, la difficoltà di applicare protocolli educativo – terapeutici moderni ed efficaci.

Trascrivere l’amarezza ed il profondo pessimismo che permeavano tutta la chiacchierata non avrebbe però aggiunto nulla a quanto il lettore già sapeva né lo avrebbe aiutato ad inquadrare la ragion d’essere di questo gruppo ed i suoi obiettivi.

Al posto dell’intervista abbiamo pensato allora di pubblicare una lettera speditaci da altre due mamme del gruppo per posta elettronica e contenente osservazioni e proposte costruttive.

“Genitori in prima linea”
Telefono 0461706500 o 0463451844
Angsa Taa 0461934642
E-mail: genitori.inprimalinea[AT]cr-surfing.net


Siamo madri di due bambini con disabilità motorie che frequentano entrambi la scuola elementare anche se in località diverse del Trentino. Abbiamo pensato di scrivere questo articolo “a due mani”, cercando di astrarci il più possibile dalle nostre situazioni personali e dai nostri vissuti emotivi in modo da portare un contributo sereno e positivo a tutti quelli che, genitori e non, vivono la disabilità quotidianamente (sulla propria pelle).

Crediamo che, su questo argomento, sia fondamentale partire da un assunto di base: per questi bambini la scuola diventa (dopo la famiglia) la principale agenzia formativa di riferimento; uno dei pochi, spesso l’unico, momenti dove potersi incontrare e confrontare con altri bambini, sentire altre voci e/o discorsi. Infatti le difficoltà oggettive, legate alla propria condizione fisica limitano al massimo le occasioni di incontro con altri coetanei in contesti destrutturati.

Benché si parli tanto di integrazione non è poi così naturale accettare un “diverso”. La nostra società è, come sappiamo, fondamentalmente basata su modelli di perfezione, meccanismi di competizione e su di una superficiale presunzione di fondo che l’accettazione e la vicinanza anche solo fisica ad un soggetto che ha una disabilità legata solo ad alcune funzioni sia un fatto scontato e che questo non comporti, ugualmente uno sforzo personale nella creazione delle condizioni per permetterne l’integrazione e l’inserimento nella società “civile”. Si pensa, inoltre, che valori legati alla sfera religiosa e/o etica o morale spesso siano sufficienti per garantire una adeguata integrazione, dimenticando molto spesso che questi indicatori, seppur importanti, non sono oggi più sufficienti.

La cultura “dell’Accoglienza”, a maggior ragione quando si tratta di un bambino, non può basarsi sull’improvvisazione, sulla buona volontà e deve essere, in primo luogo pensata, costruita e verificata. Non esistono attualmente percorsi di accompagnamento e/o monitoraggio sociale dei soggetti disabili che molto spesso, quando vengono alla luce, sono considerati dalla classe medica “dei fallimenti”. Possiamo aggiungere a questo quadro che a livello lavorativo si vogliono definire nuove modalità di inserimento per i soggetti disabili (risale ad oltre un anno la legge n. 68, “Norme per il diritto al lavoro dei disabili”), come se un individuo che si presenta sul mercato del lavoro non fosse la sommatoria di tanti tipi di esperienze e non solo di quella scolastica.

Vogliamo integrare i disabili nella società, ma al di fuori dalla scuola è sempre la famiglia, (quando sono piccoli) a doversi porre come intermediario e cassa di risonanza. Pur stabilendo l’art. 23 della Legge del 5 febbraio, n 104 la possibilità di di attivare interventi specifici per la rimozione di ostacoli per l’esercizio di attività sportive, turistiche e ricreative non esistono, di fatto, luoghi o situazioni (fuori dall’ambiente domestico) dove possano confrontarsi con i normodotati in un contesto che sia per loro rilassante e emotivamente non impegnativo. A fronte di questa situazione, partendo proprio dai soggetti disabili, potremmo incominciare a prendere in considerazione l’introduzione nelle scuole dell’educazione socio-affettiva allineandoci come Paese a quanto viene già attuato in Svezia, Ungheria, Spagna dove viene adottata da tutti gli insegnanti dalle materne alle superiori per tutti gli studenti.

Per questo noi come genitori rivendichiamo il diritto ad avere del personale scolastico altamente qualificato, preparato e competente, ma sopra ogni altra cosa sinceramente motivato (non da vantaggi indiretti o slegati dai risultati), proprio perché i nostri, e gli altri, figli devono poter contare su di una scuola che sia capace di offrire loro l’opportunità di sfruttare al massimo tutti i momenti di socializzazione primaria. Che a noi, toccati direttamente, si aggiungano quanti credono in una integrazione non apparente, pare naturale. Per questo riteniamo importante che lo sfruttamento positivo si estenda a tutte quelle occasioni in cui il mondo scolastico possa essere vissuto non solo come “dovere-obbligo-imposizione” ma anche come occasione di “incontro-relazione” con i compagni. Molto dipende da come viene impostato il progetto di inserimento nella scuola. Pur considerando che ogni bambino ha delle proprie specificità, riteniamo fondamentale, che la scuola, si confronti non solo a livello teorico ma anche pratico su altri “CASI” o “ESPERIENZE” di inserimenti di bambini con analoghe patologie dove si sono sperimentati modelli “riusciti” o “buone prassi” a cui fare riferimento.

Altro aspetto attiene all’informazione da dare compagni e delle rispettive famiglie: riteniamo molto importante (ma questo può non valere per tutte le famiglie) che ci sia una corretta e semplice trasmissione in classe delle informazioni riguardo la patologia del bambino.

L’ipotesi che la maestra spieghi, in termini semplici, alla classe il perché il compagno cammini in certo modo, le sue difficoltà motorie e come intervenire in caso di difficoltà, tutto questo è fondamentale per la responsabilizzazione dei compagni e per la crescita di sentimento reale di aiuto. Questo tipo di intervento può, inoltre, favorire indirettamente la costruzione di un ponte tra le famiglie.

Riteniamo, infine, che sia importante per la scuola trentina confrontarsi concretamente con altre esperienze ed aprirsi anche a livello europeo, sperimentare percorsi di inserimento realizzatisi in contesti più avanzati del nostro in questo settore, mediante l’attivazione di progetti pilota dove anche le famiglie possano svolgere un ruolo attivo e propositivo. Molto spesso ci rendiamo conto, infatti, che esistono solo alcune sedi (vedi per esempio convegni, occasione di formazione per quei “volontari” insegnanti e non ipermotivati) dove ci si possa confrontare tra famiglie e operatori sulla tematica dell’integrazione reale e non solo “apparente” dei bambini disabili. Sembra quasi che dove non esistano barriere di tipo architettonico si alzino in loro vece barriere di altra natura. Risulta evidente come per favorire il rispetto della Legge 104/92 siano necessarie campagne di sensibilizzazione, incentivi e finanziamenti, o forse un’analisi anche egoistica ed economica delle conseguenze di un fallimento di questa legge.

Il più grosso ostacolo da superare ci sembra decisamente quello culturale che fa considerare le tematiche dell’integrazione, delle difficoltà delle famiglie e lo stereotipo di un bambino disabile accettato “naturalmente” dalla collettività, argomenti ristretti ai dibattiti sui quotidiani locali (specie durante il periodo estivo) e resti realtà, dall’altra, l’affrontare le tematiche relative alla sua autonomia solo quando egli sia già adolescente e/o adulto.

Questo non agire, quasi che tali problemi non riguardino l’intera comunità locale, lascia la materia orfana di quel processo culturale e sociale di sostegno alle scelte economiche e politiche che possono dar risposta a istanze naturali per una società civile.

Lettera firmata

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