Club per alcolisti: Non tutto rose e fiori

Data: 01/05/00

Rivista: maggio 2000

Non funzionano secondo l’idea del suo creatore, il professore croato Hudolin, i Club come antidoto per chi è caduto nella piaga dell’alcol.

Almeno non un Club della nostra città. L’idea dello studioso sarebbe quella di creare delle piccole comunità che incominciano e percorrono assieme un cammino durante il quale si esplicano dei “riti”: il conteggio dei giorni di astinenza, il premio simbolico in occasione di determinate ricorrenze o in piccoli riti di ogni incontro.

Queste comunità hanno come centro il nucleo familiare del disagiato e come base un operatore del settore. La riuscita del percorso è subordinata alla costanza, alla responsabilità, alla sincerità, alla bravura degli intermediari.

In alcuni casi c’è da dire che il centro del disagio è proprio il nucleo familiare stesso.

La distanza, l’astio che si crea fra persone molto vicine, il non capirsi, quello che genera l’amore per la bottiglia al posto dell’amore per le persone vicine. In altri casi, inoltre, è il medico, è l’ospedale stesso che indirizza il nucleo familiare verso quel luogo che viene pomposamente chiamato “il club”. Quindi la persona non è libera ma è spinta coercitivamente fin dall’inizio del cammino.

Nel club in questione, a parte che in alcuni casi manca addirittura l’operatore, l’impegno diviene insignificante, pedante, una perdita di tempo per chi è presente e vede, come ci ha raccontato S.S., la superficialità dei pochi presenti e la poca disponibilità delle strutture. S.S. ha poi affermato che questo ambiente, in teoria, dovrà per sempre essere la sua seconda casa, che dovrà essere sempre presente anche quando la bottiglia sarà diventata (glielo auguriamo di cuore) solo un lontano ricordo. L.B., che non appartiene allo stesso club, sostiene più o meno le stesse cose, aggiungendo la poca correttezza e la poca sincerità dei presenti e il “routinismo” settimanale della cosa.

In realtà chi viene mandato in questo posto ascolta non solo il dramma degli altri ma mostra, a scapito del proprio senso di pudore, il grave disagio.

Ci va, talvolta per confessare di essere decaduto nel vizio, talvolta per mentire. Ecco perché questi club diventano un castigo: mariti che accusano le mogli e viceversa, figli che non capiscono e piangono, persone in preda all’ebbrezza, e quindi in stato confusionale, operatori che spesso sono assenti. Senza poi contare i disagi ambientali dovuti a strutture fatiscenti, mancanti dei più elementari sistemi logistici, come il riscaldamento e i servizi sanitari.

L’alcolista paga il servizio e inoltre qualcuno prenderà pure qualche contributo per la gestione e per le lunghe, a volte “eterne” o quantomeno interminabili, cure che, a mio parere, mirano alla liberazione del male e non della sua radice, perché, sempre mia opinione, “la bottiglia è un sintomo, non la vera malattia”.

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