Leggendo il noto Cantico delle creature di San Francesco, ma anche la più recente enciclica Laudato sì del pontefice ci si rende conto che sin dall’antichità l’essere umano ha sempre avuto a cuore il creato e la sua salute e ha cercato di interpretare i cambiamenti nell’ambiente che abita. Di questo abbiamo parlato io, Martina Dei Cas e il meteorologo Dino Zardi – professore all’Università di Trento, ideatore di Festivalmeteorologia e presidente dell’associazione italiana di Scienze dell’Atmosfera e Meteorologia – in quella che definirei una bellissima chiacchierata. Perché è così che la vorrei chiamare per la grande gentilezza e la sensibilità dimostrata.
Professor Zardi, secondo lei quante possibilità ci sono che un’altra tempesta come Vaia si verifichi nella zona del Triveneto?
Se guardiamo alla storia recente del Trentino, sicuramente ci torna in mente l’alluvione del 1966. Da quella terribile perturbazione a Vaia sono passati cinquantadue anni; quindi, nei prossimi trent’anni non è escluso che possa verificarsi un altro fenomeno simile.
Sappiamo che nella parte meridionale della nostra penisola, il rischio più concreto è quello della desertificazione. Qui al nord, invece, quali scenari vedremo?
In realtà la desertificazione non è un pericolo che corre solo il sud. Anche alcune aree del nord come la pianura Padana potrebbero esserne affette. Con riferimento all’arco alpino direi invece che l’aumento delle temperature causerà un aumento del calore e dell’umidità rilasciati nell’atmosfera. Di conseguenza, potremmo trovarci di fronte a un incremento delle precipitazioni. Un fenomeno che a prima vista sembra innocuo o addirittura positivo, ma non è così, perché si intensificheranno anche i fenomeni estremi – tra cui temporali violenti, tempeste e cicloni – come è avvenuto a Torbole a luglio.
C’è un modo di alterare in maniera positiva l’atmosfera – ovvero l’involucro gassoso che circonda e protegge il nostro pianeta – per renderla più resistente al cambiamento climatico? Se sì, come?
Alcuni tentativi sono stati fatti, ma sono costosi e non proprio affidabili. Uno degli esempi più noti sono gli aerei utilizzati in Israele per spargere particelle igroscopiche e far piovere nel deserto. Purtroppo, però, non ci sono garanzie sul dove avverranno gli effetti desiderati. Un’altra ipotesi è stoccare l’anidride carboniche nel sottosuolo, ma anche questa è un’operazione complicata. Più facile sarebbe adottare abitudini più sostenibili, per esempio pensare al reimpiego degli alberi per evitare che a fine vita le sostanze assorbite, tra cui l’anidride carbonica stessa, tornino nell’atmosfera.
Le temperature anomale registrate, per esempio quest’estate in Canada, lasciano delle conseguenze a lungo termine sul clima?
Sì, purtroppo lo scioglimento dei ghiacciai rilascia l’anidride carbonica intrappolata nel permafrost accelerando così il cambiamento climatico, ma anche altre sostanze pericolose che prima erano intrappolate lì, come il metano.
Quali sono, oltre alle abbondanti precipitazioni e all’intensificarsi dei fenomeni, i segnali che il clima è cambiato?
Sicuramente l’innalzamento dei mari, che mette a rischio città come Venezia, atolli e anche le falde acquifere, contaminate nel loro utilizzo dall’intrusione salina, cioè dalla risalita di acqua salata. Un altro segnale è l’arrivo di specie aliene, come la cimice asiatica, che a volte sono aggressive e in ogni caso rompono l’equilibrio dell’ecosistema in cui si inseriscono.
Di fronte a uno scenario complesso come quello da lei descritto, come possiamo noi cittadini fare la nostra parte?
Possiamo pensare a degli spostamenti più sostenibili con l’auto elettrica o la bici, all’uso di fonti energetiche rinnovabili, agli acquisti di prodotti che provengano da zone vicine e alla riduzione degli sprechi, in particolare dell’acqua. Sulla terra siamo sette miliardi di persone e quando ci viene spontaneo domandarci se il nostro microscopico operato sia utile, dovremmo ricordarci che senza ogni singola goccia neanche il mare non esisterebbe.