In questi ultimi tempi nei riguardi del carcere si ascoltano frequenti analisi, per tentare di rendere questo pianeta sconosciuto non solo più vivibile per chi vi è ristretto, senza dimenticare chi vi lavora, ma anche più consono alle aspettative dettate da una Costituzione che non è carta straccia, ma la carta magna dei diritti e dei doveri di ogni cittadino, sia esso libero che detenuto.
Ci sono da una parte le opzioni espresse da chi vorrebbe decarcerizzare, depenalizzare, legalizzare. Mentre dall’altra sponda si chiede di incrementare l’edilizia penitenziaria e abbassare il livello di fatiscenza delle strutture. Poche invece le prese di posizione per elevare lo spazio di vivibilità all’interno degli istituti, per la rielaborazione di pene più umane per rendere meno incresciosa la recidiva, e più effettiva la richiesta di certezza della pena.
Le ultime novità stanno nella creazione di carceri gestite da eventuali titolari di comunità, prigioni parastatali con regole e norme ad hoc. E poi ancora alcune richieste di adottare un detenuto, lavoro socialmente utile, ecc..
Riguardo alla comunità di Stato per detenuti, indipendentemente dalle insegne o dalle etichette che si apporteranno, si tratterà di un carcere per tossicodipendenti, in territorio Italiano, con una legislazione vigente in tutti le prigioni della penisola.
Ciò che colpisce è l’imbocco di un’avventura per niente conosciuta, se non per ciò che dal privato penitenziario ci soggiunge dal paese del sogno…americano. Un mondo carcerario che è davvero un inferno, dove nulla e nessuno è risparmiato.
Sovviene una doppia riflessione, è sempre positivo elaborare un nuovo progetto per tentare di migliorare le condizioni del carcere italiano, soprattutto delle persone detenute, per quella umanità ferita dalla droga. È chiaro che in questo senso il discorso appare più che accettabile. Lo è un po’ meno quando la riflessione scava al di sotto del primo strato dell’iniziativa, la quale non ha solo abiti mentali sociali, ma anche politici.
Allora diventa pressante la domanda: perché non investire quel denaro per spazi, sì, all’interno di una prigione, ma finalmente idonei al ripristino della propria dignità, autostima e crescita personale. Spazi adibiti allo studio, al lavoro, a quella risocializzazione che è sintesi di una rieducazione che non ha più da regalare misere parole né sconti pietistici, affinché chi esce da una galera non abbia a ritornarvi… per una specie di nemesi precostituita.
Investimenti in risorse umane qualificate e qualificanti, per capacità e per forze in campo finalmente sufficienti, a mantenere alto il senso di salvaguardia della collettività attraverso l’accompagnamento individuale in microgruppi facenti parte il macrogruppo. Tutto ciò porta a sottolineare ulteriormente quella domanda iniziale; perché non investire davvero in quanto già c’è, in quanto già è scritto nelle circolari ministeriali, negli intendimenti del Dipartimento e del Ministero, quindi in quelle sezioni o strutture cosiddette “a sorveglianza attenuata”dove gli strumenti e le risorse impegnate non possiedono astrattezze, ma rimangono tutt’ora relegate in un angolo, perché poco condivise e perché osteggiate da pseudo furbizie politiche.
Forse sono figlio della mia storia, dei miei trent’anni passati dietro le sbarre, ma conosco il dazio da pagare per il male fatto agli altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività. Una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo che non esiste. Che non ti assolve.
Come detto molte sono le idee per trasformare in meglio il carcere, mi pare però che le stesse comunità, se non ancora del tutto preparate a questo nuova sfida, che appare ravvicinata se non vogliamo davvero che il carcere divenga lo strumento di ogni conflitto sociale, da tempo sono già luoghi di esecuzione della pena, infatti dove io svolgo la mia attività di tutor nella comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia, ciò avviene con persone agli arresti domiciliari, in affidamento, in misura alternativa al carcere ecc.
Forse sarebbe il caso di investire veramente di più in quelle comunità che hanno costruito negli anni sul campo la loro credibilità, professionalità, progettualità e capacità di accompagnare l’altro in difficoltà. Quelle comunità-strutture che sono palestre di vita, le quali invitano a espellere le tossine a chi non regge più il passo, e parallelamente consentono una corretta applicazione della sanzione nella ricostruzione di identità perdute o peggio mai individuate. Investire in quelle aree pedagogiche peraltro esistenti nel carcere, perché la politica dell’esclusione non possiede strumenti di ricomposizione per il reato commesso, né di cambiamento e riconciliazione, allora lo sforzo sta nella ricerca di una dimensione che non possa coincidere solamente con la fisicità della segregazione, o con un modello culturale basato sull’emarginazione e su una condanna che diviene alterazione del tempo e dello spazio, persino dei sentimenti.
Qui non si tratta di eccedere nel garantismo in favore dei detenuti, a discapito della tranquillità dei cittadini liberi, vittimismi e pietismi fanno male a entrambi. È sorprendente come a volte l’incontro con gli altri, ci conduce sul sottile confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo alle proprie forze, alle proprie energie per tentare di recuperare non solo nel trascendente della fede, che ogni individuo professa, ma fors’anche e soprattutto su ciò che in ciascuno incombe: la responsabilità di “ritrovare e ricostruire se stesso”.
La seconda parte sul prossimo numero