“Dall’Albania al Trentino: immigrazione 1991-2011” di Leonora Zefi e Matilda Sula

Data: 01/02/13

Rivista: febbraio 2013

Un’analisi puntuale che lascia poco spazio all’interpretazione: dati alla mano il saggio di Leonora Zefi mira a ridimensionare e diradare gli ancora persistenti pregiudizi sulla comunità albanese in Trentino.

L’indagine ripercorre la storia del loro esodo, iniziato in massa agli albori degli anni Novanta, e il fatto che alcuni di loro trovarono rifugio tra le valli locali, alla ricerca di opportunità, integrandosi non senza sforzi.

In questo libro sono approfondite le motivazioni che hanno costretto un popolo alla fuga, le cause che hanno generato il sospetto nella comunità d’accoglienza, le fasi migratorie che si sono succedute sul territorio, i protagonisti del viaggio e l’integrazione durante quest’ultimo ventennio.

Dai dati sono avvalorati da statistiche aggiornate e da relatori competenti che trattano le tematiche dell’identità, della cultura migratoria e confrontano le memorie dei popoli coinvolti.

Tra i risultati emerge che la comunità albanese è quella che meglio s’è integrata in Trentino, a distanza di un ventennio dalla prima migrazione di massa. Non solo, questa prima prova di accoglienza è stata quella decisiva che diede il giusto incentivo per lo sviluppo del volontariato trentino.

Altra caratteristica saliente, rispetto alle altre comunità di stranieri, è la matrice maschile dell’emigrato albanese: erano (e sono) per lo più uomini a lasciare il paese, avviando il ricongiungimento familiare una volta trovata una propria sistemazione nel nuovo territorio.

(Il confronto con, ad esempio, molte signore dell’Est diventa spontaneo: queste raggiungono l’Italia impiegandosi come assistenti domestiche per mandare soldi ai famigliari rimasti nel paese d’origine).

Cosa risalta da questo atteggiamento? La volontà di non ritornare in patria e quindi la scelta di ricostruirsi una vita, integrandosi, nel nuovo paese.

Sono poi trattati anche aspetti economici ed imprenditoriali a cui partecipano attivamente anche gli esponenti della comunità albanese affittando o comperando case ed aprendo attività commerciali.

Altro risultato è l’ambizione di secolarizzare i figli a favore del lavoro qualificato superando la mentalità come immigrato manodopera specializzata.

Una fuga dalla governo assoluto: la migrazione

Cosa diede il via all’esodo di massa dall’Albania? La causa principale fu l’instaurazione di una dittatura di stampo comunista che pose le sue radici dalla fine della seconda guerra mondiale, impoverendo gradualmente l’aspetto culturale, linguistico ed economico dello Stato albanese.

Dal 1977 il paese ruppe i rapporti con gli altri stati, chiudendosi nell’isolazionismo, e questo gesto diede il via ad una forte crisi economica. Dal 1989 partirono le prime ribellioni e nel dicembre dell’anno successivo il governo dovette permettere la creazione di partiti indipendenti, determinando la fine del monopolio del partito comunista.

L’emigrazione albanese iniziò con la caduta del regime comunista e con il diritto per le persone di espatriare liberamente.

Dall’inizio di marzo 1991 gli esodi si fecero massicci e l’immigrazione clandestina dall’Albania è stata ininterrotta. Dieci anni più tardi prima la comunità marocchina, poi quella albanese si contendevano il primato numerico in Italia, sorpassati poi dai rumeni.

Alla fine del 2010 gli albanesi regolarmente registrati in Italia erano quasi mezzo milione.

Disumanità ed accoglienza

I migranti partivano alla volta dell’Italia aspettandosi di trovare condizioni di libertà, opulenza, cibo e lavoro in abbondanza e, soprattutto, facili opportunità per intraprendere una nuova vita.

Ben presto le illusioni si scontrarono con la realtà: emblematico e simbolico fu l’arrivo della nave Vlora, che attraccò l’8 agosto 1991 nel porto di Bari. Il capitano fu costretto a dirottare il mercantile verso le coste italiane e, con le 20.000 persone a bordo, la nave è ancor oggi associata all’episodio del più grande approdo di clandestini in Italia.

I profughi, appena sbarcati, furono rinchiusi nello stadio di Bari e le immagini del lancio di cibo dagli elicotteri, e della tensione della polizia, fecero il giro del mondo: evidenti furono le difficoltà che sorsero nel gestire così tante persone.

Per quanto riguarda il territorio trentino, la Provincia si impegnò attivamente per sostenere l’accoglienza dei profughi ma trovò la popolazione locale impreparata. Gli arrivi più consistenti furono quelli dell’inizio anni Novanta e del 1997: ai primi albanesi mancava un aggancio iniziale in loco che potesse fare da tramite con la comunità, mentre i secondi furono avvantaggiati perché potevano contare su un sostrato già preparato.

Durante l’indagine non viene sottovalutato il ruolo dei mass media che spesso rinvigorirono le paure dei trentini alimentando i pregiudizi già esistenti.

Così per i profughi divenne ancor più difficoltoso trovare lavoro ed opportunità d’inserimento.

Per agevolare l’integrazione venne istituto il “Piano Alternativo”: un accordo tra Provincia e commissariato del governo che prevedeva una sistemazione per le famiglie, ma non tutti comuni accettarono di accogliere profughi nei loro confini.

Nonostante ciò, dai dati emerge il carattere comunitario della società trentina che, guidata da un dettagliato piano in materia di convivenza ed inserimento, ha saputo sviluppare il senso dell’appartenenza evitando pericolose ghettizzazioni.

Ad oggi…

Cos’è cambiato in questi vent’anni? Che gli albanesi, oltre a mostrare una volontà d’integrazione, hanno cambiato le priorità: se inizialmente le urgenze vertevano sul lato economico ora sono più motivazioni famigliari a spingere per lavorare sull’accettazione sociale.

Altra nota che si ricava dalla ricerca riguarda l’educazione impartita ai giovani: nella maggior parte dei nuclei famigliari i genitori incoraggiano l’uso di entrambe le lingue e culture al fine d’avvantaggiare i figli nell’integrazione di entrambi i contesti, nonché spingono per un’istruzione più approfondita per dare la possibilità ai figli di uscire dalla categoria lavorativa dell’“operaio specializzato”.

L’indagine ha lasciato anche degli spunti su cui lavorare: s’è notato che le donne sono la categoria meno soddisfatta dell’ambito lavorativo e meno integrata.

In ogni caso quest’analisi ha voluto raccogliere e districare una materia complessa come quella dell’integrazione di un popolo in Trentino, proponendosi non come risultato finale d’una vicenda, ma come strumento per avvicinare anche i “non addetti ai lavori” a questa problematica per migliorare l’integrazione del futuro.

precedente

successivo