La vista è uno dei sensi di cui l’uomo si serve maggiormente nel suo quotidiano, anche a causa della forte stimolazione visiva di cui la società occidentale è fautrice e, al tempo stesso, bersaglio. La vista ci permette di riconoscere rapidamente luoghi ed oggetti anche distanti, in particolar modo all’interno delle giungle di cemento che sono le nostre città. Tale modo di percepire la realtà ci consente infatti di muoverci con disinvoltura nei diversi ambienti, trascurando spesso l’uso degli altri sensi.
E i non vedenti? Come fanno a spostarsi nello spazio, ad agire, a riconoscere persone, luoghi e tutto ciò che costituisce la realtà circostante? Come dev’essere vivere costantemente al buio? A tali domande ha cercato di dare una risposta empirica Andreas Heinecke, “umorista-umanista” tedesco, che nel 1996 fonda una società, la Consens Communication, che realizza progetti per l’integrazione delle categorie inserite nella cosiddetta “fascia debole”.
Un’iniziativa in particolare ha riscosso grande successo, facendo il giro del mondo registrando il tutto esaurito: “Dialogo nel buio: impara a vedere”. Trattasi di un percorso o, se si preferisce, di una passeggiata al buio completo alla ricerca di un diverso approccio percettivo ai vari contesti della quotidianità: con gli occhi di un non vedente. Un occhio che tasta, che sente, che odora e, in fine, che gusta. Un piccolo spazio in cui, per un’ora, i ruoli s’invertono. Per una volta non siamo noi a guidare un cieco, ma è lui che ci fa strada, che ci conduce, che ci dice come agire. Un percorso in cui viene messo in discussione il comune significato della parola “vedere”, perché la vista non è solo fatta d’immagini, come ci hanno abituati a pensare.
Lo scorso 13 dicembre, il progetto è giunto anche in Trentino, al Mart di Rovereto per aver termine il 18 aprile 2004.
Anticamera di questa nuova esperienza è la piazza antistante l’entrata del colossale museo, con le sculture, la fontanella e la spettacolare quanto originale rete di tubi e vetrate che fa da cupola, quasi a testimonianza del contrasto tra due mondi: quello delle immagini e quello dell’immaginazione.
L’edizione è promossa e realizzata dal Centro Servizi Volontariato, con la collaborazione della Sezione trentina dell’Unione Italiana Ciechi e col Patrocinio della PAT, dei Comuni di Trento e di Rovereto e del Segretariato Sociale RAI.
Cari lettori pensavate che pro.di.gio. si sarebbe perso un evento così unico e decantato? Certamente no!
Aspettando di entrare nel misterioso labirinto, molta è la curiosità accompagnata alla paura di non essere all’altezza del tragitto.
È giunta l’ora. Vengono consegnati i classici bastoni bianchi che ci consentiranno di procedere e di mantenere l’equilibrio in una dimensione che pare diversa dalla nostra.
Realmente non v’è nulla da temere. Ostacoli non ce ne sono per l’incolumità dei visitatori e le guide sono vigili ed esperte.
L’incontro tra l’utenza, che parte ogni 15 minuti a gruppi di otto persone, e la guida avviene rigorosamente al buio: bisogna abbandonare i pregiudizi che la vista impone. “Per tutto il viaggio sarò avanti, dietro ed in mezzo a voi” assicura Ale, il nostro “timone”.
Sotto i nostri piedi il terreno è morbido, come un tappeto. L’aria è fresca, gli uccelli cinguettano. Siamo nel bosco. Sotto di noi c’è muschio. Attorno… “Allungate le mani al vostro fianco, ci sono delle piante” Sì, sentiamo le foglie. Ma cosa proviamo? Eccitazione, un lieve senso di vertigine (i punti di riferimento tradizionali vengono meno) e paura di perdersi, di rimanere in dietro.
Ale invita a proseguire, un ponte ci aspetta. Sì, ma dove? Aiuto! “Più passa il tempo e più prenderete confidenza” assicura la voce. Veniamo introdotti uno per uno attraverso una porta: si cambia contesto.
Alle pareti vi sono dei rilievi in plastica. Sono cartine del mondo. Accompagnando la mano di qualcuno la guida svela i luoghi toccati. Siamo in città. Ale spiega che per un cieco andare in città da solo è molto pericoloso “Rischiamo di essere investiti in qualsiasi momento. Io studio a Bologna e, per conoscerla, inizialmente, ho dovuto girare per un mese di notte”. Un semaforo, uno scalino, la superficie liscia di una macchina. Una rete, pare quella arancione dei cantieri. Appoggiata ad essa c’è una bicicletta.
Non siamo a nostro agio, ma iniziamo a prendere più confidenza. Ci penserà il prossimo ambiente a renderci più “abili” grazie ad una maggiore libertà di movimento che imporrà la situazione.
Tastiamo alla nostra destra: frutta, verdura… siamo al mercato! Non tutti riescono ad accedere direttamente a questa bancarella, causa l’affollamento. Non c’è problema, a sinistra è possibile riconoscere vestiti, qualche borsa ed alcune paia di scarpe. Attaccata al muro: la bussola delle poste; vicino ci sono dei libri. Le pagine sono ricche di punti in rilievo: sono scritte in braille (si pensi che per imparare a leggerlo ci vuole in media un anno). “Ora ci sposteremo in un ambiente più estivo” annuncia Ale. Su di una parete sono appesi degli oggetti di gomma, sono pinne, e più in là si riconosce una muta da sub.
È giunto il momento della gita in barca. A tentoni ognuno si siede l’uno accanto all’altro. Si sente un fresco venticello, l’imbarcazione inizia a oscillare seguendo un lieve moto ondoso. Ale accende il motore. Che bella sensazione! La paura e lo smarrimento iniziali sono svaniti o per lo meno si sono attenuati. Ovviamente nessuno ha quella dimestichezza che caratterizza il nostro amico, ma siamo in buone mani. Dalla disinvoltura con cui si muove ci si dimentica che, come noi, pure lui lì dentro non vede nulla.
Purtroppo siamo giunti quasi alla fine. Un termine in cui abbiamo la possibilità di colloquiare davanti ad un bicchiere, seduti ad un tavolo. Sì, sto parlando del bar. Dritto davanti a noi c’è il bancone. Qui troviamo Ernesto, il barista, pure lui cieco, pure lui molto cordiale con noi, col quale è possibile scambiare qualche battuta. Scherzosamente ringrazia due di noi che col braccio gli hanno pulito il bancone. Ma c’è qualcun altro? Sentiamo delle voci. Sono registrate? No, è il gruppo prima di noi che chiacchiera gustando la propria bibita. Anche noi presto faremo lo stesso. Ale ci accompagna uno ad uno al tavolo. Percepiamo di essere seduti a semicerchio. La tensione svanisce lasciando il posto ad una piacevole conversazione. E come in ogni bar che si rispetti, è giunto il momento di pagare. Come? Esattamente come abbiamo fatto per un’ora: col tatto. Un’ora?! È passato tutto questo tempo? Già!
All’uscita la voce che ci ha guidati acquista finalmente un volto. “Interessante è che vi siete fidati di me per un’ora senza avermi mai visto”.
Ognuno di noi si allontana soddisfatto. Ognuno conscio di aver terminato un’esperienza che, per quanto breve, rimarrà a lungo, forse per sempre, nella mente e nel cuore, grazie alla grande intensità emotiva che l’ha caratterizzata.