Disabili da amare

Data: 01/08/03

Rivista: agosto 2003

La nostra vita con Jacopo è già molto definita. Ha appena compiuto sette anni e da quando è nato c’è un prima e un dopo, una specie di confine tra due vissuti speculari. È sorprendente infatti il fatto che ripensare agli anni che lo hanno preceduto è come accorgersi che lui c’era, impercettibilmente, ma lui già esisteva. Questa sensazione credo la conosca ogni mamma o papà riguardo al proprio figlio, mentre ciò che è solo nostro, solo di noi genitori con bambini gravemente disabili, è un particolare senso del tempo.

Avere un bambino con autismo dilata enormemente i tempi da condividere. È un viversi così intenso, continuo, ininterrotto, certamente sconosciuto ad un genitore di bambini normodotati, che svela infine un immenso dilemma, quello di risolvere il vedersi negare la naturale tensione ad autonomizzare il proprio piccolo. E così ci si trova a dover dare concretezza ad un’amare innaturale, totalizzante, primitivo, arcaico, “animale”, un amare che si avvicina molto al concetto: “per sempre” nella certezza che solo un sentimento così estremo potrà infine dare a lui l’autonomia negata.

Non saprei come altrimenti definire ciò che mia moglie ed io proviamo. Chissà se abbiamo capito veramente o se cambierà ancora?

Un tempo pensavamo fosse una dimensione affettiva dovuta, una risposta forte rivolta a qualcuno che lo necessita. Con il passare dei mesi questa chiamata palesemente “non laica” ci sembrò una specie di “scelta religiosa” perché altrimenti insufficienti le forze disponibili, insostenibile la sfida. Poi, più ci si inoltra in questa ricerca, in questa storia d’amore preoccupato, più i nostri bambini particolari ci aiutano.

Ci si accorge con gradualità di come funziona questo amare “difficile”. È per eccellenza un’amare “senza condizioni”, mentre l’amore che solitamente viviamo è uno scambio, è un mettersi semplicemente in mostra per essere visti, notati, per migliorare l’opinione di sé negli altri o in noi stessi.

Questo sentimento speciale invece è un credere nell’altro, nella sua “salvezza”, nella sua abilitazione, senza alcun riscontro, contro ogni ragionevolezza, senza riserve. È qualcosa che incredibilmente cresce sempre di più, anche quando pensi che più di quello non sia possibile. Proprio allora succede di tutto.

Nostro figlio è un enigma per noi, quasi più di Dio, nel senso che entrambi questi misteri non sappiamo spiegarceli.

Ma mentre Dio continua a nascondersi e noi confusi a cercarlo, nostro figlio è una presenza emozionante, intrigante, vitale, pressante, palese, a volte nuda nella sua drammaticità, di cui riusciamo a scoprire il senso solo un po’ per volta, solo se ci liberiamo degli stereotipi del nostro secolo. Abbiamo abbandonato i quesiti dei primi giorni, quel “quasi offensivo” bisogno di cercare in noi stessi le responsabilità, le ragioni, al di fuori dell’uomo, al di fuori della carne. Abbiamo rinunciato a comprendere il perché. Le domande più pressanti sono divenute: “Cosa si fa ora?”

Tutte le risposte possibili sono lì davanti agli occhi.

Nostro figlio, forte scopo del nostro credere, è qui, davanti a noi, non come Dio, ostinatamente silenzioso, ma concreto, per consentirci soluzioni che non sono semplicemente accoglierlo o farsene carico. Quello che lui ci propone è più elevato: “salvatemi”.

Significa lasciar correre senza freni né ritegno il senso profondo di Dio. Lui ha senso se mio figlio sarà salvato. Questo perché Dio ci seduce con un Cristo “resuscitato” non un figlio ingiustamente morto.

Bisogna ricominciare a credere nella “liberazione dal dolore”, nel “recupero concreto” di ciò che ci sembra tolto ma che lo è solo apparentemente. Bisogna ricominciare a parlare di “abilitazione”, di “sfida riabilitativa”, persino di “guarigione”. È necessario rifondare la volontà di salvezza.

La salvezza dell’altro prima della nostra. Salvezza concreta, salvezza ora, nella città di Dio ora, salvezza del corpo oltre che dell’anima. Una salvezza concreta che riguardi l’altro per elezione. Per iniziare si deve amare l’altro. Amarlo come? Come noi stessi, noi comodi protagonisti di questa grande avventura della vita.

La creatività che sta nella terapia è l’unico grande azzardo.

La maggior parte di noi è ormai disabituata a rischiare e si adegua prontamente alle sentenze, alle etichette, alle voci del coro, attenta a non perdere quanto crede disponibile ed essenziale: aiuto economico, assistenza, sollievo, comprensione, adattamento, facilitazione, reti, cooperazioni, ecc.

Tutte cose bellissime ma che sarebbero dovute venire dopo…

La stragrande percentuale delle proposte, delle erogazioni, di ciò che viene richiesto e ottenuto attorno al “diversamente abile” non riguarda la sua salute, la sua cura, il suo recupero, l’abilitazione, la riabilitazione specifica, in una parola la sua salvezza ma si concentra principalmente sulla passiva ricezione, sulla gestione della ricaduta del suo handicap sulla famiglia e nel sociale.

Come aggravante c’è che tutti noi, e con noi i nostri figli, ci rassegniamo sempre di più a recepire le proposte, i servizi erogati e a farci servire. Una offerta aggiornata di compassione statalizzata è diventata la regola, quanto reso disponibile coincide con quanto richiesto e si autoreferenzia sulla base del semplice essere disponibile.

Con questo atteggiamento la passività è l’inevitabile conseguenza.

Passività nel valutare, passività nel ricevere, passività nel permanere e nel consentire si permanga definitivamente nel handicap, che diventa un sempre più universale e condiviso “passare oltre” il disabile.

I pregiudizi da superare sono pilastri di un tempio nel mondo dei sani. Sono quelli del handicap da accogliere, comprendere, accettare, consumare anziché ridurre o risolvere. Sono quelli di utilizzare il disabile e i suoi diritti per i propri fini o per la propria salvezza.

È come chiedere che ricomincino i miracoli. Cristo è uno che libera.

E invece, creatività è terapia, ed è il contrario di semplice ricezione, di assistenza, di contenimento.

Bisogna però spingersi in territori dove l’amore incondizionato divenga intelligente oltre che possibile. Si può imparare tanto in un percorso abilitativo, soprattutto quando il destinatario di questo lavoro – e io su questo ho sempre insistito – fa parte della propria vita.

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