Donne, libri e diritti nell’Afghanistan di Nadia Hashimi

Data: 01/08/17

Rivista: agosto 2017

Categoria:Disagio e inclusione

Sono tenaci, eleganti e coraggiose. Hanno gli occhi grandi e le labbra serrate, perché il loro non è un Paese per donne. Sono le maestre, le levatrici, le studentesse e le spose bambine di Kabul raccontate nei romanzi di Nadia Hashimi, pediatra del Maryland nata a New York da genitori afghani. La scrittrice, che proprio in Trentino Alto-Adige ha lanciato il tour europeo di presentazione del suo ultimo romanzo La figlia dell’arcobaleno si racconta così.

Nadia, suo nonno Ibrahim Khalil fu uno dei più acclamati poeti afghani, mentre sua madre ha studiato ingegneria civile. Una famiglia, dunque, fuori dal comune…

E che ha sempre messo l’istruzione al primo posto come mezzo per emanciparsi e migliorare la propria condizione. I miei genitori lasciarono l’Afghanistan negli anni settanta, poco prima dell’invasione sovietica. Si trasferirono negli Stati Uniti per inseguire il sogno americano, un sogno in cui nessuno di noi, neanche nei momenti più bui, come l’11 settembre o l’inizio della presidenza Trump, ha mai smesso di credere.

Che ruolo ha giocato la cultura afghana nella sua educazione?

C’è sempre stata: nelle canzoni, nei cibi speziati, nei compleanni festeggiati circondati da sciami di zie e cugini in pieno stile mediorientale, tra il Ramadan, l’albero di Natale e l’Hanukkah. E come i miei genitori l’hanno trasmessa a me, io spero di trasmetterla ai miei figli. È parte della loro identità, così come lo devono essere il rispetto e la conoscenza delle altre culture. Quando da piccoli andavamo in vacanza, mamma ci portava a visitare le chiese e ci insegnava la storia dell’arte, invitandoci così ad essere curiosi piuttosto che diffidenti nei confronti di ciò che appariva diverso.

Il diverso oggi in Europa è spesso il richiedente asilo. Com’è percepita la crisi dei rifugiati negli Stati Uniti?

L’America è, per natura, un Paese di migranti. Purtroppo, con l’affermarsi di destre e populismi, sempre più miei concittadini tendono ad avere verso i rifugiati una posizione disinteressata, come se la questione non li riguardasse. Questa però è una tesi insostenibile per gli USA, così pesantemente coinvolti, negli scorsi decenni, in eventi destabilizzanti in tutti i continenti.

La protagonista del suo romanzo Due splendidi destini è Rahma, una bacha posh, una bambina costretta, secondo il diritto tribale dell’Afghanistan rurale, a travestirsi da maschio per poter contribuire al sostenimento della famiglia composta di sole donne e quindi impossibilitata a svolgere i compiti da uomini, come andare al mercato o vendere una capra. Fereiba, la protagonista di Quando la notte è più luminosa è invece un’emancipata maestra elementare che fugge in Europa dopo la morte del marito per sottrarre i figli al regime dei talebani, che le impediscono di lavorare e quindi anche di provvedere al loro futuro. Ma com’è essere donna nella sua terra natale?

Le donne afghane sono delle lottatrici, discrete, ma sempre in prima linea per la tutela dei loro diritti. Dove il corpo non può portarle, arrivano con la mente. Fino a 16 anni fa, non potevano nemmeno entrare a scuola, ora il 36% degli studenti è di sesso femminile e in tutto Paese si formano imprenditrici, artiste, atlete, cantanti e parlamentari: le donne infatti sono coinvolte a tutti i livelli governativi e ciò aiuta il processo di pacificazione nazionale. Purtroppo però il prezzo che pagano per il loro impegno civico è molto alto e si compone anche di minacce di morte quasi quotidiane. A ciò si aggiungono il dramma delle spose bambine e l’ombra del sedicente stato islamico, che ci fa rivivere gli anni bui del regime talebano.

Secondo una leggenda dell’Hindu Kush, passando sotto l’arcobaleno una femmina può trasformarsi in maschio e viceversa. Perché ha scelto di usare questa storia come base per il suo primo libro per ragazzi, La figlia dell’arcobaleno?

In Afghanistan c’è poca mobilità di genere o meglio: ci sono compiti da femmine e da maschi, giochi e scuole separate, come se la contaminazione fosse pericolosa e una ragazza che va con lo skateboard o un bambino a cui piace intrecciare braccialetti avessero il potere di scardinare un’intera società. Ma quest’immobilità finisce per uccidere il dialogo, trasformandosi in una prigione, da cui ciascuno di noi deve trovare il coraggio di uscire per riscoprire il concetto di “umanità”. Sempre di “diversità” parlerò anche nel mio prossimo libro per bambini, che uscirà nel marzo 2018 e racconterà di un ragazzino afghano cresciuto negli Stati Uniti, la cui madre verrà improvvisamente deportata perché i suoi documenti non sono in regola. Vorrei che i miei giovani lettori capissero che anche dentro una persona che consideriamo completamente “altra” c’è, forse, un po’ di noi stessi.

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