Edizioni Centro Studi Erickson

Data: 01/12/19

Rivista: dicembre 2019

Categoria:Disagio e inclusione,Interviste

Stabilito il tema centrale dell’inclusione, la rassegna stampa ci ha ricordato dei 35 anni di attività di Edizioni Centro Studi Erickson. Una realtà che da tanto opera per diffondere una cultura dell’inclusione scolastica e sociale. La coincidenza ha fornito l’occasione perfetta per un’intervista con Fabio Folgheraiter, insieme a Dario Ianes fondatore della casa editrice e centro di formazione. 

Edizioni Centro Studi Erickson nasce nel 1984 da un’intuizione. Da lì, 35 anni di storia che vi hanno portato ad essere una delle case editrici più prolifiche in Italia. 

La casa editrice nasce nel 1984, ma il Centro Studi e la relazione con il mio socio Dario Ianes nascono ben prima. Abbiamo fatto il liceo e quattro anni di Psicologia assieme. Finiti gli studi universitari nel 1978, nel 1979 abbiamo iniziato ad operare nel campo dell’educazione e del sociale, facendo soprattutto formazione. Abbiamo frequentato dei master di specializzazione sul metodo cognitivo-comportamentale allora emergente, precorrendo i tempi, tentando all’inizio anche un po’ d’attività clinica. Siamo però subito stati assorbiti, all’inizio degli anni Ottanta, da una grande richiesta di formazione nel campo della disabilità. Nel 1977 c’era stata la legge dell’inclusione scolastica, per cui le scuole – soprattutto – e i servizi socio-assistenziali avevano interesse verso questa tematica. Abbiamo subito organizzato un grande corso nazionale sul metodo cognitivo-comportamentale applicato alla disabilità, iniziando a farci conoscere. Da lì in poi abbiamo avuto un sacco di richieste. Dovendo fare formazione, c’era anche la necessità di studiare: ci siamo messi a leggere riviste e libri internazionali, attivando una sorta di Centro Studi per supportare l’attività di formazione. Tra 1980 e 1984 abbiamo cominciato a preparare delle dispense, con traduzioni o riflessioni nostre su varie tematiche, nuove per allora. Abbiamo così iniziato ad avere richieste a livello nazionale, anche importanti e sostenute. Lì l’intuizione di pubblicare le dispense e mettere in piedi un’attività editoriale. Così al Centro Studi e all’impresa iniziale a carattere formativo abbiamo affiancato l’attività editoriale. Questo forte intreccio tra formazione ed editoria è una caratteristica forse unica della nostra casa editrice. Nell’estate del 1984 abbiamo editato cinque bozze, uscendo in ottobre con cinque libri. Abbiamo avuto subito un riscontro importante, capendo di aver toccato un tasto sensibile. 

Da allora ad oggi, l’evoluzione più importante? 

Siamo partiti applicando il metodo cognitivo-comportamentale alla disabilità grave e certificata. Per anni siamo rimasti in un ambito molto di nicchia, specialistico: tutti i primi libri erano indirizzati a fornire strumenti e metodologie per operare in questi ambiti molto “severi”. Alla fine degli anni Novanta ci siamo allargati a forme di difficoltà meno marcate, allora meno diagnosticate, come i disturbi specifici dell’apprendimento. Abbiamo così avuto una forte estensione di interesse, diventando una realtà consolidata dell’editoria nazionale. 

La parola inclusione è centrale nella vostra attività editoriale. Che significato ha per voi?

È la base di tutta la nostra attività. Oltre che nel campo del supporto all’educazione scolastica, ci siamo mossi nell’ambito dei servizi sociali. E la parola che lega questi mondi è proprio inclusione. Ci siamo attivati per dare indicazioni con l’idea che le persone con difficoltà debbano essere accompagnate in percorsi di terapia o riabilitazione anche molto concreti, in modo che possano affrancarsi da una condizione di svantaggio e partecipare di più alla vita sociale. Prima di tutto quella scolastica. C’è stata, ad esempio, tutta la partita della scuola che doveva attrezzarsi per includere veramente bambini che prima erano tenuti fuori, visti come delle palle al piede. Abbiamo sempre sostenuto che la capacità della società di includere e la volontà delle persone di entrare nei processi della vita sociale fosse un elemento di ricchezza straordinario per la scuola e per la società, prima ancora che per le persone che beneficiavano di questo progresso civile. Adesso non parliamo quasi più di inclusione tecnica – diamo per scontato che le persone abbiano tutti i supporti per poter progredire nella maniera più efficace nel loro percorso d’apprendimento – ma di inclusione come una qualità della vita per cui le persone vengono aiutate nelle difficoltà ma apprezzate per quello che sono. Persone che devono essere messe nelle condizioni, abbattendo barriere e pregiudizi, di poter dare il loro apporto. Questo non solo con bambini, ma anche con adulti e famiglie, persone che hanno difficoltà ma anche una ricchezza esistenziale da poter offrire e mettere in valore.

Altre due parole per voi centrali mi sembrano innovazione e interculturalità. 

Abbiamo sempre cercato di guardare in avanti. Quando siamo nati eravamo proiettati nell’ambito internazionale e cercavamo di portare quello che ci sembrava nuovo e praticabile, spendibile, usufruibile nel concreto nella realtà italiana. Oggi può sembrare una strategia, allora era proprio un elemento costitutivo. Ce l’avevamo nel DNA, poi i giovani che sono arrivati hanno assorbito questa cultura. Abbiamo cercato di portare metodi e strumenti, ma anche approcci profondi e filosofici all’attività pedagogica e di cura. L’idea stessa che abbiamo di inclusione è ancora di per sé innovativa, un’idea di reciprocità. Abbiamo sempre messo in discussione la nostra visione attraverso elaborazioni teoriche e metodologie che presuppongono la relazione e la reciprocità tra tanti soggetti che partecipano a definire dei progetti di vita. La vita non è dei tecnici, dei professionisti, delle burocrazie, delle amministrazioni; come diceva Goethe “la vita è dei viventi”. Bisogna quindi rispettare l’alterità, la capacità di chi vive di esserne governatore, e tenere in gioco tutte le persone che possono dare un contributo. Su questo elemento credo ci sia il maggior elemento di innovazione, su cui c’è sempre da lavorare. Quando i tecnici entrano nella vita delle persone si capisce che questa è la strada: mettersi in relazione, in dialogo, ascoltare le proposte. Allora le soluzioni ai problemi emergono da tanti punti di osservazione, da tante voci che si possono e si devono esprimere.

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