“Il rispetto è l’apprezzamento della diversità dell’altra persona, dei modi in cui lui o lei sono unici.” Annie Gottlieb. Credo che tutti sappiate cos’è un’etichetta o per lo meno ne avrete tolta una dai vestiti nuovi. Un’etichetta ha il compito di rendere riconoscibile qualcosa, è un utile strumento per definire e classificare oggetti distinguendoli da altri. Tuttavia, se da un lato abbiamo etichette che fanno sorridere, ad esempio quei buffi bigliettini che le nonne mettono sui vasetti di ragù fatto in casa per non confonderlo con la passata di pomodoro, dall’altro dobbiamo anche confrontarci con etichette spiacevoli.
Da sempre l’uomo si interroga su cosa sia quel che gli sta attorno e sente il bisogno di categorizzarlo: così si attua un processo cognitivo che attribuisce a ciò che viene esperito un’etichetta in forma di parole (bello-brutto, bianco-nero ecc.). Ecco allora che l’uomo, in quanto essere sociale, tende ad etichettare non solo paesaggi, oggetti ecc. ma anche altri esseri umani.
Tra i primi fu Goldon Allport (1954) ad evidenziare la funzione categorizzatrice del linguaggio e la connessione tra categorie linguistiche e giudizi sociali. Oggi, nonostante il suo apporto, si è portati a pensare che tutti abbiano maturato del buon senso nel definire l’altro attraverso le parole, ma si tratta di una mera illusione. Esistono casi che chiamerei di “linguaggio povero”, ovvero incurante dei valori, dove non sembra esserci differenza nel riferirsi ad un oggetto piuttosto che ad una persona in cuore e ossa. La componente vitale, che caratterizza le persone, viene spenta dall’utilizzo di termini che esaltano loro caratteristiche più o meno evidenti in maniera negativa. Si inizia da bambini dando al compagno di classe del ciccione e si continua da adolescenti senza dar peso all’impatto di aggettivi come “deficiente” o espressioni tipo “senza cervello”. Se l’infante e il ragazzino possono essere in parte giustificati per il loro spirito leggero, non sarei altrettanto permissiva in merito agli adulti. Normalmente un adulto dovrebbe essere in grado di ragionare e capire che usare un termine piuttosto che un altro può urtare la sensibilità di chi gli sta di fronte.
Ad esempio l’uso di “handicappato” piuttosto che “diversamente abile” o “persona con disabilità” risulta a mio avviso indisponente… quanti di noi però chiamano con naturalezza “Vu’ cumprà” un venditore ambulante o “Barbone” un mendicante? Che poi, se volessimo ragionare meglio sui singoli termini ci sarebbe un mondo variegato e complesso (per chi fosse interessato indico il sito www.parlarecivile.it dove ci si sofferma sull’uso sbagliato delle parole). Con questo articolo vi invito a parlare senza discriminare sull’onda del politically correct: nella diversità di ognuno sta la ricchezza, abituiamoci ad usare termini positivi capaci di farla emergere. Un’attenzione linguistica di questo tipo ci aiuta ad abbattere le barriere e avvicinarci all’altro che, come noi, s’impegna ad essere la migliore versione di se stesso e, magari, potrebbe avere qualcosa da insegnarci.