Famigliari in prima linea

Data: 01/12/06

Rivista: dicembre 2006

Relazioni sociali scarse, sentimenti di paura, depressione, preoccupazione e senso di colpa … Non è il quadro clinico di un paziente di psichiatria ma ciò che accade nei membri di famiglie di pazienti con malattie mentali. Questo accade per vari motivi, innanzitutto perché sono proprio i famigliari i dispensatori principali di cure, in secondo luogo perché ciò viene fatto con pochissime o scarse informazioni sulla malattia psichiatrica. Sanno poco sulle cause che l’hanno provocata e sul trattamento che magari loro stessi devono dispensare e non hanno avuto nessun tipo di preparazione sulla gestione dei pazienti e sulle strategie per risolvere o almeno tamponare i vari problemi che insorgono durante il corso della malattia.

La mancanza di conoscenze pratiche e di un sostegno emotivo spiegano abbondantemente il malessere che vivono queste famiglie e le difficoltà dei rapporti, non solo con il parente malato.

In questo numero abbiamo voluto dare spazio alla psichiatria e per questo abbiamo preso contatti con ARIS famigliari malati psichici, associazione che a Trento lavora con e per i familiari di persone che soffrono della malattia mentale. Abbiamo trovato la disponibilità della signora Giulia (nome di fantasia), madre di una ragazza che da anni soffre di malattia mentale disposta a raccontarci la sua testimonianza.

Prima di incontrare la signora abbiamo avuto uno scambio veloce di opinioni con la dottoressa Patrizia Lettieri, psicoterapeuta consulente esterna dell’associazione. Le abbiamo sottoposto alcune domande:

Che idea ha della psichiatria in generale?

La psichiatria ha abdicato perché ha rinunciato al suo ruolo di cura e tutela della persona affetta da malattia mentale. Non si sono realizzate delle strutture in grado di affrontare un campo specifico che è quello della malattia mentale, cosa che invece nel campo delle tossicodipendenze è un grande proliferare. All’interno dei programmi di studio della psichiatria non è più analizzato il momento di pericolosità del malato, sia verso gli altri, ma anche verso se stesso. Una persona che non riesce a cogliere dove esiste l’io che non si esprime e non riesce a trovare dei progetti adeguati nella sua vita ha gia creato un danno.

Che ruolo ha la famiglia?

La famiglia è fondamentale. La malattia mentale ingloba in un’appartenenza tutti i membri del nucleo famigliare, tanto più c’è la sofferenza di un membro tanto più si devono aiutare i genitori in un percorso di differenziazione.

Il tempo a nostra disposizione con la dottoressa è stato poco, ma è stato davvero interessante venire a conoscenza di un altro punto di vista su questo complicatissimo argomento.
Incontriamo quindi la signora Giulia e ci facciamo raccontare la sua esperienza:

“Premetto che mia figlia non va al Centro di Salute Mentale, CSM, ormai da quattro anni. Quando ci andava noi famigliari eravamo esclusi, l’unico ruolo che avevamo era quello di ascoltare i medici che ci dicevano che cosa aveva nostra figlia e quali medicinali dovevamo somministrale. Alle spalle del malato ci sono i famigliari che nella maggior parte dei casi si trovano abbandonati a se stessi. Io vorrei un centro aperto 24 ore su 24 anche perché non tutti i ragazzi hanno i genitori che possono occuparsi di loro…è dura!
La prima crisi che mia figlia ha avuto è stata davvero difficile; i medici me l’hanno riempita di farmaci, di colpo mi sono trovata a casa una ragazza che non era più in grado di fare nulla autonomamente,dovevo lavarla, vestirla,darle da mangiare…
Sono dell’idea che se si ha la possibilità di non andare al CSM è una bella cosa , lì sei un numero, un caso, hai 22 anni e nel 90% dei casi sei schizofrenico e se per caso in famiglia qualche lontano partente soffriva di disturbi mentali allora è ovvio che anche tu non stai bene!
Ora mia figlia non è più seguita dal CSM. Sono arrivata ad un punto che non sapevo più che cosa fare e mi sono rivolta ad una dottoressa in forma privata che mi ha dato alcune dritte di comportamento con mia figlia, come ad esempio di non continuare a darle troppe attenzioni e di ignorarla un po’; da quel momento mia figlia è cambiata. Mi sono poi rivolta ad un altro medico che l’ha aiutata a ritrovare l’autostima persa durante gli anni.”

Le chiediamo che cosa avviene all’interno di una famiglia che vive con un malato mentale.

“All’interno della famiglia avviene una rottura e il malato molte volte ne approfitta, cerca di mettere involontariamente zizzania. Bisogna essere molto forti e soprattutto uniti. Noi mandavamo nostra figlia privatamente da uno psicologo ed io e mio marito andavamo da un altro.”

Al nostro colloquio è presente anche la Presidente dell’ARIS, Elisabetta Angiolini e ne approfittiamo per chiuderle se sono sufficienti, sul territorio di Trento, le strutture dedicate alla rieducazione e riabilitazione:

“Questa è una questione che è emersa spesso nella nostra associazione. Il problema è il dopo-ricovero, soprattutto per quanto riguarda le persone giovani. Ci sono giovani che hanno delle potenzialità di riprendere una vita normale però vengono ributtati in famiglia, quest’ultima ha degli equilibri ancora precari, torna una nuova crisi, c’è un nuovo ricovero e tutto è come prima.
Ci vorrebbe una struttura riabilitativa; nel momento in cui c’è la dimissione dal reparto il paziente dovrebbe passare un periodo fuori di casa in una struttura che lo curi, che lo osservi, che ne rilevi le potenzialità, che riesca a vedere che percorso fargli fare.
In Trentino non ci sono strutture riabilitative, ma solo per malati cronici con patologie gravi che devono essere presi in custodia. Manca il concetto della riabilitazione applicato al paziente, si parla moltissimo di “fare insieme”, ma un programma organizzato e coerente fatto sulla persona non c’è, perché una persona non deve solo svagarsi, ha anche bisogno di avere degli impegni, altrimenti un giovane di 20 anni, gestito a farmaci solo con qualche spazio di svago e di divertimento non conduce una vita normale, bisogna dargli il più possibile un qualcosa che si avvicini alla vita normale, soltanto così, dal mio punto di vista, si può recuperare. E’ un lavoro lungo, difficile e anche costoso, ma delle possibilità ci sono.
Io direi che in Trentino una cosa così non esiste, non esistono le strutture private, le cliniche private che ci sono in altre Regioni, infatti molti dei pazienti del Trentino si rivolgono a strutture fuori Provincia, soprattutto ora che aumenta la patologia nel campo delle depressioni.
Le strutture vanno differenziate, se si vuol recuperare qualcuno devi differenziare, bisogna trovare la struttura dove assisti in modo adeguato il paziente con quella determinata patologia.
Quando c’è una patologia psichiatrica il farmaco è importante però è altrettanto importante saperlo usare, differenziarlo ( i farmaci per la depressione sono diversi da quelli per la schizofrenia o per le forme maniacali), quindi un minimo di distinzione bisogna farla. Oltre alla terapia farmacologia bisogna agire parallelamente facendo riabilitazione.”

La presidente dell’associazione tocca anche il discorso della rete:

“Bisogna vedere in cosa consiste la rete; deve funzionare su un piano di parità, dove ciascuno riconosce i propri compiti che sono uno diverso dall’altro e deve riconoscere i propri limiti. Deve essere disposto a confrontarsi con quello che fanno gli altri servizi, bisogna che si interconnettano tra di loro, non c’è nessuno che consce la verità assoluta.”

Un altro delicatissimo tema che viene trattato durante questa conversazione è quello del pregiudizio legato alla malattia mentale. Il pregiudizio si vince in tante maniere, si deve dare fiducia alla persona, farla sentire responsabile stabilendo dei rapporti, delle relazioni, considerando ovviamente sempre il limite legato alla malattia.
Non è semplice rapportarsi con un malato, ma un tentativo va sempre fatto.
Concludendo: la malattia mentale, se trattata adeguatamente, non impedisce una vita di relazione, la possibilità di avere un lavoro…; in altre parole non è incompatibile con la speranza. Conoscere, avere le informazioni giuste, confrontarsi con altri che vivono situazioni simili, aiuta a ricondurre ad una dimensione reale quello che sta succedendo, superando l’isolamento e la vergogna.

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