«Fotografare persone disabili o affette da malattie rare mi offre la possibilità di dare loro la dignità che meritano: la mia diretta esperienza mi aiuta a colmare le distanze tra l’ignoranza e la consapevolezza. Ho imparato che nella vita tutto è possibile e che si possono superare i problemi generati dai pregiudizi». È questa la filosofia di Giacomo Albertini, architetto veronese, nato senza udito a causa della rosolia presa dalla mamma alla sedicesima settimana di gravidanza, e oggi impegnato a spiegare attraverso la fotografia come sentono i sordi.
Giacomo, conservi dei ricordi d’infanzia sulla tua disabilità?
Sì. Molti sono legati alla forza di volontà dei miei genitori, che per quasi sette anni mi hanno accompagnato avanti e indietro da Milano in treno per permettermi di seguire un innovativo percorso di rieducazione in un centro specializzato. E poi, non potrò mai dimenticare la prima volta che misi le protesi acustiche e, all’uscita del negozio, riuscii a sentire il fruscio delle foglie e il rumore delle macchine. A essere sinceri, da bambino, un po’ mi vergognavo a indossarle. E alle superiori ero quasi escluso dai compagni. All’università a Ferrara, ho invece trovato la mia dimensione, grazie a un gruppo di amici che finalmente mi capivano.
E oggi come la vivi?
La vivo bene anche se ho ancora qualche difficoltà. Lavoro al servizio di ingegneria clinica dell’ospedale, dove mi occupo di progettazione di spazi per i macchinari sanitari, sono sposato e ho due figli, uno di sei anni e una di due. Sono molto sensibili e hanno capito subito il mio problema. Ogni mattina la piccola mi aiuta a mettere le pile nelle protesi e il grande ripete ciò che dicono le persone se non capisco.
Quanto incide la tecnologia sull’inclusione?
Tantissimo. Nel 1992, andai negli Stati Uniti a trovare un’amica sorda e scoprii che avevano inventato telefonini capaci di mandare messaggi scritti. Quindi posso dire che l’invenzione degli smartphone, qualche anno dopo, mi ha letteralmente cambiato la vita. E adesso non vedo l’ora che arrivino i sottotitoli nelle videochiamate per completare l’opera. Alla televisione, poi, è una cosa positiva che ci siano i sottotitoli, ma sono troppo lenti, a volte saltano e sul digitale non sono previsti. Altre rivoluzioni, invece, purtroppo sono ancora lontane, come quella prospettata negli anni Novanta con lo studio delle cellule staminali. Mi dispiace che poi non se ne sia più fatto niente, perché avrei voluto recuperare l’udito per sentire come sono le voci della mia famiglia.
Com’è nata la tua passione per la fotografia?
A undici anni, seguendo le orme di mio papà, anche lui appassionato. Poi ho fatto il liceo artistico e lì ho sviluppato la mia creatività, seguendo corsi di specializzazione e workshop. All’inizio mi dedicavo soprattutto alla street photography, finché un giorno un conoscente mi fece una domanda un po’ indiscreta, ma sicuramente magica. Voleva sapere come sentiamo noi sordi. Fu così che mi recai all’Ente nazionale sordi (ENS) di Verona e chiesi il permesso di fotografare i tanti amici che vi si ritrovavano ogni settimana. Per capire come sente un sordo, bisogna immaginare una persona che guida in mezzo alla nebbia. Vede le macchine intorno, ma non bene. Di qui la scelta di fare foto sfocate, in bianco e nero, da guardare mettendosi le cuffie antirumore.
Come funziona la lingua italiana dei segni, in sigla “LIS”?
Io purtroppo non l’ho mai imparata, ma grazie a questo progetto fotografico ho scoperto che la LIS non si parla solo con le mani, bensì anche con i movimenti della faccia. Da qui è nato un nuovo lavoro, interessante e divertente, poi presentato al festival della fotografia di Reggio Emilia. Si chiama «faccia da sordi» ed è composto da una serie di ritratti. Sono tutti primi piani di sordi, ma tra le foto c’è una persona udente. Volevo far capire la differente mimica facciale tra chi sente e chi no. Mi fece molto riflettere il fatto che gli unici in grado di individuare la persona udente furono coloro che avevano genitori o pazienti sordi.
Perché hai scelto di concentrarti soprattutto sui ritratti? E in che modo il mondo della disabilità incontra il tuo progetto di fotografia sociale?
Perché fotografare le persone è bello e affascinante. Dietro ogni scatto c’è una storia. Il mio scopo è far conoscere il mondo della disabilità e delle malattie rare a chi non ne ha esperienza diretta. Mi concentro sul vissuto delle singole persone, perché penso che nella vita tutto sia possibile e qualsiasi situazione difficile possa essere affrontata e superata. Chi meglio di un disabile lo può testimoniare? Da questa riflessione è nato un altro lavoro, dedicato ai mestieri delle persone sorde, purtroppo ancora vittime di mobbing e discriminazione. Siccome non possono usare il telefono, si pensa che non siano capaci di fare niente.
Qual è l’emozione più grande che hai provato grazie alla fotografia?
Quattro anni fa, realizzai un reportage su due ragazze disabili che erano andate a vivere da sole, senza l’aiuto degli assistenti. Una aveva la sindrome di Down, l’altra quella di West. Perciò dovevano completarsi a vicenda. La prima gestiva la casa, mentre l’altra non poteva muoversi perché era in carrozzina. L’anno scorso ho scritto all’associazione che aveva dato vita al progetto per sapere come stava andando. E quando mi risposero che le ragazze se la stavano cavando alla grande quasi piansi per l’emozione, perché ancora una volta mi rendevo conto che nella vita, se ci si impegna e ci si crede, tutto è possibile.
Che cos’è la fotografia per te in una parola?
Amore.
Quali progetti ci sono nel tuo futuro?
Vorrei realizzare un libro per dare più informazioni a chi non conosce il mondo della disabilità e delle malattie rare. E poi andare nelle scuole, per insegnare fin da piccoli come aiutare i disabili senza aver paura o difficoltà nel confrontarsi con la loro condizione.