In gara nella sezione inediti del Premio Letterario ‘Popoli in cammino’, Il buio del mare di Ron Kubati si aggiudica meritatamente la vittoria. È l’ennesimo successo di pubblico per lo scrittore di Tirana, che conferma il suo stile narrativo inconfondibile per la commistione tra lucidità di descrizioni e suggestioni di una realtà impalpabile. Alla capacità di tratteggiare persone e cose con una calma precisione nella raccolta dei dettagli, l’autore alterna infatti lo sfuocato, insinua il dubbio, la possibilità che il sembrare (sembra) possa armoniosamente convivere con l’essere (è). ‘Del resto’, come ci dice per bocca del protagonista, ‘le cose che si spiegava erano ben poche’.
Se all’apparenza si crede di parlare di un ossimoro, in realtà si tratta di una scrittura volutamente cangiante, che assume diverse forme e colori, che cambia a piacimento dell’autore. Una scrittura pregnante, pragmatica, fatta di oggetti che sembrano materializzarsi e di similitudini improbabili, di sensibilità indefinite che ci coinvolgono profondamente. È scelta di raccontare stuzzicando, contemporaneamente e a più livelli, la sensorialità del lettore, che si trova ad essere invaso da immagini piuttosto evocative, all’occorrenza tattili, sonore, gustative. Lo stesso Kubati, all’apparenza solo demiurgo del suo testo, sembra emergere da parole particolarmente commoventi e sentite, che ci toccano irreparabilmente. ‘Il fuori s’insinuava dentro. Nei suoi pensieri. Nelle sue fantasie. Sconfinato. Misterioso. Avvolgente.’ La permeabilità tra l’ambiente e l’uomo, in un compenetrarsi di sensazioni, aleggia nel testo. La sensibilità però dell’autore albanese sembra non appartenerci, il suo immaginario è inconsueto per i nostri occhi, fatto dovuto probabilmente al suo vissuto, alla sua cultura, alla sua storia. Il risultato di tale miscela è un libro originale e sottile, che non lascia spazio al buonismo se non quando scivola, forse un po’ troppo ingenuamente, nel lieto fine.
La storia, ambientata in un paese innominato ma di chiaro stampo socialista, sembra avere i contorni spettrali di una dura quotidianità, fatta di silenzi e soprusi. In realtà governano, anche se in sordina fino alla fine, l’amore e il sogno incontaminati dall’accadere delle cose, spesso dettato dall’arrivismo e dalla cattiveria. E così il giovanissimo protagonista del racconto resiste e non si lascia scalfire dal clima livido e oscuro della sua città, dal ‘cielo sporco, limitato, lontano’, e soprattutto dei suoi abitanti. Mantiene sveglio e vivo il suo sguardo nonostante l’impiccagione di suo padre, la stanchezza del dolore della madre, l’irraggiungibile purezza di una compagna di scuola dal ‘fiocco azzurro che profumava di precisione e di sapone’.
È un mondo che non ci appartiene quello di Kubati, in cui non riconosciamo i solchi della nostra storia e il racconto del nostro vivere, ma dove intravediamo un altro paese, dal ‘paesaggio insieme familiare e improbabile’ agli occhi del ragazzino del racconto, in cui si rinsalda ‘il legame tra la terra e i piedi’.