Dalla Piana Rotaliana ai campionati italiani di trial, gareggiando con i normodotati per inseguire un sogno e vincere, anche se non la guerra, tante battaglie contro l’autismo. Quella di Michele Oberburger, classe 2003 di Roveré della Luna (Trento), è una storia unica in Europa. E noi ve la raccontiamo così, assieme a papà Roberto e a Niki Talk, un’app che aiuta le persone autistiche o con bisogni comunicativi complessi a comunicare.
Michele, come è nata la tua passione per il trial?
Grazie a un’amica di famiglia, Deborah Albertini, pluricampionessa italiana in questa disciplina, che un giorno vedendomi andare in bici propose di mettermi sulla moto. Papà all’inizio era preoccupato, un po’ contrario. E invece nel 2016 ho eseguito la visita sportiva, conseguito la licenza della Federazione motociclistica italiana, e adesso eccoci qua!
Che emozioni ti dà andare in moto?
Qui rispondo assieme a papà, con le parole di un altro genitore che mi ha visto in sella e detto: «Quando Michele si allaccia il casco e comincia a guidare la sua Beta 250, diventa un ragazzino normale. Cambia le marce, usa la frizione, i freni, accelera, ride, sgasa, come qualsiasi altro diciassettenne».
In questi anni hai partecipato a numerose gare. Quali ricordi con più soddisfazione?
La vittoria a Folgaria due anni fa e i piazzamenti al campionato italiano. Ogni gara è bella, perché è uno scalino in avanti. Pensare che non arrivo sempre ultimo, ma a volte riesco a superare i ragazzi “normali” vuol dire tanto.
Un sogno realizzato?
Partecipare al campionato italiano.
Un sogno ancora da realizzare?
Abbattere le barriere del campionato europeo. E, perché no, mondiale.
Ti piacciono altri sport?
L’arrampicata, il SUP surf e la barca a vela, ma nessuno mi piace tanto quanto la moto.
Quanto ti alleni?
Il sabato pomeriggio e la domenica tutto il giorno. Circa dieci, quindici ore in settimana.
Quando corri, indossi una divisa speciale. Quella dei pompieri. Come mai?
È una storia lunga, cominciata quando avevo sette anni, legata al lavoro di papà. Lui ha un’azienda che si occupa di antincendio e sicurezza, e un giorno mi ha portato con sé dai vigili del fuoco permanenti di Trento. Ero così affascinato dai loro mezzi.
Ed è nato un amore a prima vista che dura ancora a oggi…
Sì, la caserma è la mia seconda casa, e proprio lì sto facendo il tirocinio come cuoco.
Una domanda per papà Roberto. A che punto siamo con la conoscenza dell’autismo in Italia? Quali stereotipi e pregiudizi vi feriscono di più? Anche in riferimento a quanto successo a inizio luglio a Carbonare di Folgaria, dove una ragazza autistica ha dovuto lasciare la casa vacanza dove era alloggiata perché accusata di fare troppo rumore…
La coscienza dell’autismo in Italia è ancora poca. Se ne parla nella giornata dedicata, il 2 aprile, o quando succedono fatti particolari, come la bambina autistica di Brescia sparita. Ma poi si tende a dimenticare. E questo è un male, perché manca una progettualità di vita a 360 gradi per questi ragazzi. Per esempio, per loro – che pure sperimentano l’adolescenza al pari dei loro coetanei – non c’è un educatore sessuale. Si pubblicizzano tante cose, ma poi se ne fanno poche. Ora abbiamo una Ministra, Erika Stefani, deputata ad occuparsi di disabilità e molto attenta al tema dell’autismo. Il problema è che i tempi della politica sono lunghi. Per prendere delle decisioni ci vogliono anni e intanto si perdono intere generazioni di ragazzi autistici. In Trentino ne nascono circa 30 ogni anno. In Europa, ad oggi, gli adulti autistici sono 40.000. Bisogna partire da lontano, dalle scuole elementari e medie, per capire le loro attitudini e abilità e inserirli nel mondo reale in base alle loro competenze. I laboratori sociali sono un aiuto, ma non devono trasformarsi nell’unica soluzione. Prendiamo ad esempio Michele, è un bravissimo cuoco, ma sarebbe un giardiniere negato. Quello che voglio dire è che non ci sono ricette preconfezionate valide per tutti, ma che bisogna studiare progetti di vita personalizzati per ogni ragazzo. In merito alle ferie, tante famiglie di autistici non le fanno perché hanno paura di non essere accettate. E invece servirebbero strutture attrezzate, dove possano stare serene, come la spiaggia.