Il mandato alla solidarietà

Data: 01/02/14

Rivista: febbraio 2014

Possiamo essere credenti, fedeli per convinzione o per convenienza, oppure non professare alcun credo religioso ma semplicemente essere innamorati della vita autentica e faticare, di giorno in giorno, per essere coerenti con il valore di un’umanità coesa e solidale, testimoni, nella quotidianità, delle pari dignità ed opportunità di ogni essere umano, quale origine e fine della convivenza civile.

Possiamo essere persone a cui la vita ha elargito molte buone occasioni e opportunità di successo, personaggi potenti, compiacentisi per le opere compiute; oppure possiamo essere semplicemente cittadini, umili e diligenti tessitori del bene quotidiano, piccole e perseveranti componenti del comune tessuto sociale, particelle dell’aria individualmente invisibili.

Comunque sia, a ciascuno di noi il Natale appena passato ha lasciato, come impegnativa eredità individuale, una seria responsabilità, chiedendoci di essere cittadini del mondo, attenti osservatori di ciò che ci accade attorno ed autentici interpreti dei bisogni altrui, personali o collettivi, capaci di reagire intelligentemente e quotidianamente per rendere un po’ più bello e più giusto il mondo.

Ai credenti e ai non credenti, il Natale ha lasciato un neonato, incarnazione della condizione di fragilità umana, dell’essere aperto al futuro ma, nello stesso tempo, indifeso e bisognoso di cure. Ma chi è oggi quel bambino privo di mezzi e di scaltrezza? Quel bimbo oggi è più vicino a noi di quanto si pensi; forse è proprio mio padre anziano, umiliato dall’ostentazione tecnologica che lui non riesce a capire, o mio figlio disoccupato oppure è quella ragazza alla quale mani violente d’uomo hanno strappato, insieme a due denti, anche il piacere di sorridere o quell’uomo che, povero, ripone tutte le sue aspirazioni in un’improbabile vincita miliardaria al gioco d’azzardo. Chi ci assicura che il gelo della grotta di Betlemme non sia qui, appena dietro l’uscio del nostro vicino, che entra ed esce frettolosamente di casa, forse nella forma degli stenti materiali e dei bisogni economici o forse sotto le vesti discrete del disagio personale e sociale, della solitudine o comunque dell’emarginazione? A quante persone dobbiamo la nostra attenzione e la nostra solidarietà e quante di loro non vediamo neppure, vivendo frettolosamente, nella convinzione che tocchi sempre a qualcun altro accorgersi e prendersi cura delle situazioni di difficoltà individuale o collettiva altrui.

Sicuramente la condizione della fragilità personale è nell’esperienza della malattia e, se messa a confronto con l’arroganza e l’indifferenza altrui, è capace di distruggere ogni prospettiva di vita serena, individuale e collettiva. Probabilmente, quell’essere fragile di cui stiamo parlando sta anche nell’appartamento del giovane che vive da solo, ammazzando nel web e nella birra il suo tempo, la delusione per la mancanza di prospettive future, il non senso e la depressione oppure coltivando progetti di ribellione violenta e alle ingiustizie e all’arroganza di certi potenti, ostinati nei loro privilegi e ciechi all’evidenza del disagio quotidiano. E se il bisogno di quel bambino stesse anche nelle relazioni professionali, impoverite e rese prive di autenticità, magari proprio dietro la porta chiusa dell’ufficio contiguo al mio?

Nel periodo natalizio, il Papa ha parlato di nuovo della tenerezza: non credo che questo sia un valore tipicamente e soltanto cristiano ma piuttosto una disposizione d’animo che la generalità degli essere umani dovrebbe coltivare nelle relazioni reciproche.

Che cos’è la tenerezza, sentimento che si prova alla vista di un uomo appena dischiuso alla vita, se non l’istinto buono e commosso che ci porta ad avere cura degli altri esseri umani? “Tenerezza e cura”: due atteggiamenti dell’animo accomunati dal senso della responsabilità personale. Se provo tenerezza verso una persona vuol dire che lei sta nei miei pensieri, che percepisco la necessità di averne cura, assumendo su di me la responsabilità del suo stare bene, qui ed ora. Ma anche del suo crescere di domani, dopodomani, tra un anno, tra dieci, nell’approssimarsi della fine della sua vita.

E allora il Natale ci ha lasciato la responsabilità di essere ciascuno custode dell’altro, il mandato alla solidarietà, non come merito e vanto personale bensì come normale dimensione delle relazioni umane. Io, personalmente, custode del mio vicino, sapendo che altri, a loro volta, hanno a cuore come io vivo; io, cittadino, custode del mio quartiere; io, professionista, custode dei valori e delle persone che mi sono affidate; io, amministratore, custode delle risorse e della cosa pubblica, scrupoloso ed imparziale vigilante sui bisogni, sui diritti e sulle opportunità della comunità che governo.

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