Abbiamo conosciuto Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paralimpico, lo scorso ottobre al Festival dello Sport. Oltre ad autografare una copia di pro.di.gio. e concedersi per una foto con il nostro giornale in mano, accettò la proposta di una futura intervista. L’occasione propizia si è presto presentata, dato che la sua azione dirigenziale intende lo sport come strumento di inclusione attraverso il quale perseguire un cambiamento culturale nella percezione della disabilità. Tutte tematiche per noi centrali.
Hai fatto della cultura paralimpica la tua mission. Cosa significa?
Ritengo che lo sport abbia un ruolo determinante nel promuovere un’immagine diversa delle persone con disabilità, normalmente declinate in un’accezione troppo spesso negativa e solidaristica, per arrivare ad una cultura che faccia capire quanto lo sport come metafora della vita possa essere la rappresentazione di quello che noi vorremmo accadesse nella quotidianità. Ovvero essere considerati persone alle quali è stata data un’opportunità, che nel momento in cui vengono messe nelle condizioni di esprimere le proprie abilità diventano risorse, protagonisti positivi del loro vivere. Io credo che lo sport stia contagiando positivamente la società civile, nel nostro Paese ma non solo, perché oggettivamente sta mettendo in moto un percorso virtuoso che sta producendo normalizzazione, e non solo nell’attenzione alle tematiche sportive.
Un discorso rafforzato dal tuo percorso di vita, prima da atleta e poi da dirigente.
Ciascuno di noi porta nel proprio percorso di vita il bagaglio delle proprie esperienze personali. Prima di un dirigente sportivo, sono una persona disabile da quando avevo 17 anni. Sono stato atleta, e poi dirigente di un movimento sportivo. Portare nella mia esperienza professionale il mio percorso di vita significa tentare di incarnare e comunicare con la nostra organizzazione quello che è stato per me un percorso fortunato, grazie alla famiglia e al sistema in cui mi sono trovato a vivere. Ho avuto le possibilità di dimostrare quello che sapevo fare, e di insegnare agli altri a non guardare alla carrozzina ma alla persona. Credo che la mission, mia e della famiglia paralimpica, sia riuscire ad educare le menti a guardare alle persone, non a come le persone sono.
A novembre si sono tenuti i Mondiali di atletica leggera a Dubai e la prova di Amsterdam di Coppa del Mondo di scherma. Come valuti le prestazioni dei nostri atleti?
In maniera più che positiva. Oramai l’Italia agonistica paralimpica è esplosa, in virtù ai risultati di atleti con la A maiuscola che grazie al lavoro delle federazioni stanno ottenendo risultati eccezionali e fino a pochi anni fa inimmaginabili. Cito un dato che può essere sintesi di una risposta compiuta: il movimento paralimpico italiano nel 2000 si collocava tra i primi trenta al mondo, oggi siamo nella top ten. Non è solo un fatto di risultati agonistici; la cosa più bella è che il fenomeno paralimpico italiano venga studiato all’estero, perché non ci si capacita di come l’Italia in poco tempo sia riuscita ad esplodere in questo modo. In tal senso, Londra 2012 ha rappresentato uno spartiacque, il momento in cui abbiamo cominciato a raccogliere i risultati di un lavoro fatto negli anni precedenti, soprattutto dal punto di vista della comunicazione. La presenza a Londra della RAI con quattordici ore di diretta al giorno è stata sicuramente determinante. Così come per diffondere il movimento e la cultura paralimpici sono state complici le imprese di atleti straordinari come Alex Zanardi, Bebe Vio, Federico Morlacchi, Martina Caironi, Oscar De Pellegrin e i nostri arcieri, Assunta Legnante, Oney Tapia, Monica Contrafatto. La storia del movimento degli ultimi vent’anni è stato un lento lavoro riformatore che ci ha portato al riconoscimento come ente pubblico e al riconoscimento di media e opinione pubblica. Oggi il mondo paralimpico italiano è esploso grazie ai risultati degli atleti, che rappresentano l’apice, l’elemento attrattivo, ma anche perché ha cominciato a far parlare di sé in tutto il mondo, e perché portatore sano di valori che spero contaminino la società civile.
La prossima estate sarà la volta dei Giochi Paralimpici di Tokyo. Che mire ha l’Italia?
Confermarsi nella top ten. A Rio de Janeiro arrivammo decimi, ma mancava una potenza sportiva come la Russia. Mi auguro che i risultati ottenuti a Dubai, Amsterdam, Londra, nel nuoto, nel tiro con l’arco, nella canoa e nel tiro a segno, possano farci salire. Già confermare Rio sarebbe però straordinario. Ma un successo ancora maggiore sarà quello di portare la delegazione più grande di tutti i tempi per numero di atleti qualificati. Perché è vero che dobbiamo guardare ai risultati agonistici, ma quello più grande è essere riusciti ad allargare la base dei praticanti. Se si è allargata la base, significa che da qualche parte questi ragazzi sono emersi. Ciò detto, sono consapevole che bisogna fare sempre meglio. Però, in un Paese come il nostro, credo che la più grande novità del fenomeno sportivo sia rappresentata, negli ultimi vent’anni, proprio dal movimento paralimpico.