L’Italia è un grande paese con grandi problemi. Ci sono problemi seri, ma non bisogna dimenticare, ci sono anche problemi decisamente seri. L’azzardo è sempre stato una zona grigia, come ogni luogo in cui potere e denaro s’intrecciano, ma inoltrandosi nelle sue ombre più oscure, ci si addentra in un regno di criminalità organizzata, corruzione e disperazione, un mondo di storie d’Italia. Il gioco d’azzardo è sempre esistito, accompagna l’uomo fin dalle origini della storia ed è presente in ogni cultura, tuttavia, mai come in questi anni, si può assistere a un’esplosione incontrollabile del fenomeno. Il nostro paese è fondamentale per l’industria del gioco: in termine di volumi di mercato occupa il terzo posto mondiale, ma conquista il podio se consideriamo la spesa pro capite. Nessun popolo gioca tanto quanto gli italiani. Settanta miliardi di euro spesi nei primi dieci mesi del 2012, duecentotrenta milioni al giorno, nove milioni e mezzo l’ora, centosessantamila euro ogni minuto, duemilaseicento euro al secondo. Com’è stato possibile trasformare l’Italia nella capitale dell’azzardo?
Solo dopo aver studiato a fondo i clienti, si può comprendere il fascino oscuro del gioco. Il vero giocatore d’azzardo è Wile il Coyote: il famelico coyote dei cartoni “Looney Tunes” che, fra i canyon del fiume Colorado, dà la caccia a un imprendibile uccello corridore. Wile non ha alcun bisogno di dare la caccia a Road Runner per sfamarsi, altrimenti non spenderebbe un patrimonio in razzi, esplosivi e ogni altro strampalato prodotto ACME. Al posto del tritolo, ordinerebbe comodamente una pizza d’asporto. L’infruttuosa caccia all’uccello è fine a se stessa. È un gioco che impegna a fondo il coyote, ne stimola l’ingegno alla ricerca di nuovi stratagemmi, lo coinvolge nonostante una vita solitaria nel deserto. Il gioco è la distrazione dalla monotonia di un lavoro asfissiante o logorante. Il portiere di un hotel ripete ogni giorno il medesimo gesto senza requie. Ogni giorno è identico al precedente per il casellante dell’autostrada, per il barista che serve caffè la mattina, l’operaio che monta frigoriferi, lo spazzino, l’imbianchino, il commesso. Non sono solo i lavori cosiddetti “umili”, ma anche l’impiegato, l’insegnante, il militare, il farmacista, il commerciante, tutti ripetono le stesse azioni per tutta la vita. Tutti loro sono surrogabili. A nessuno importa chi ci dà il resto al supermercato, una cassiera vale l’altra. In tutta la mia vita non ho mai sentito nessuno in coda alle poste dire: – “Prego, vada avanti lei, io aspetto che si liberi proprio quel signore lì!”
L’insostituibilità è un privilegio di pochi scienziati, artisti, innovatori e (non nel caso italiano) uomini politici. La cruda verità è che tutti siamo rimpiazzabili. Lo pensano i capi in azienda, i sottoposti che vogliono farci le scarpe e perfino le persone che amiamo. Sogniamo tutti l’amore della vita, ma dando un’occhiata alle statistiche si possono abbandonare le speranze, come è buona educazione fare sull’uscio di un inferno dantesco. Nel 2011 sono stati celebrati in Italia 204.830 matrimoni e il trend è costantemente in caduta libera. Nello stesso anno le separazioni sono state 88.797 e i divorzi 53.806, che sommati fanno 142.603. Ci siamo quasi, ma bisogna aggiungere chi è rimasto vedovo. Sempre nel 2011, il numero complessivo di vedovi e vedove in Italia era superiore ai 4,5 milioni di persone. La metà della popolazione non s’è mai sposata e le statistiche da pagina domenicale dei quotidiani affermano che sette coppie su dieci sono infedeli. C’è differenza fra essere solitario ed essere solo. Il solitario, per qualche mal riposto senso di superiorità, desidera restare in disparte e compiacersene. Rimanere solo invece è sempre la dolorosa condizione di una scelta altrui. Nei bassifondi dell’azzardo spesso si trovano i soli. Erroneamente si pensa che i giocatori d’azzardo siano solo i poveri. Una buona parte dei giocatori lo è di certo, tuttavia tutte classi sociali sono proporzionalmente rappresentate. Ci sono molti poveri e pochi ricchi, perché così è fatto il paese. Molti dei giocatori più assidui sono in realtà quelli che la società definisce “freak”: mostri, baracconi da circo. Avendoci lavorato per anni, posso assicurare che i centri scommessa sono pieni di nani, obesi, storpi e tanti con i denti in fuori. Alcuni somigliavano ai cavalli. Un ragazzo giovane a causa di un incidente aveva la testa schiacciata, completamente piatta sul retro e composta quasi interamente da placche metalliche. Credo lo avesse investito un camion da ragazzo, o forse un pullman, non ricordo, ma le ossa del cranio erano state tutte sbriciolate nell’impatto. Non mancano i muti, i sordi, quelli con le corde vocali distrutte. Ci sono i “pirati”: gente con l’occhio di vetro, monchi o con protesi. Una piccola percentuale dei 700 mila infortuni sul lavoro l’anno finisce con un’amputazione. Spesso ci sono anche i pazzi, mentre qualcuno la testa la perde nel gioco. Dapprima incominciando a borbottare fra sé e sé rumorosamente, sempre più spesso, sempre più a lungo. Il borbottio si trasforma in chiacchiericcio, conquista spazio, mentre la lucidità arretra. I monologhi diventano soliloqui folli. Alcuni parlavano con i satelliti, altri con i muri e qualcuno mimava ossessivamente i gesti appresi in un remoto passato in catena di montaggio. Un matto si portava appresso uno spruzzino di detergente con il quale puliva ogni cosa. Per “ogni cosa” intendo davvero tutto. Una bella spruzzatina nel caffè prima di berselo era la prassi. L’esistenza di questi uomini è simile a quelle di navi spiaggiate su coste desertiche, relitti inamovibili in balia della ruggine e dei capricci del tempo. Fra gli spettri alla soglia della bisca ci sono anche ragazzi e giovani. Albania, Montenegro, Bosnia, Siria, Libano, Egitto, Tunisia, Libia, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio, Pakistan, sono solo i più frequenti fra i paesi di provenienza. Luoghi di guerra civile o di guerra fra bande. Molti, riusciti a scappare dal servizio militare, hanno ottenuto lo status di rifugiato, ma l’idiozia della legislazione italiana in materia è notevole: i rifugiati di guerra, per legge, non possono in alcun modo lavorare. Senza soldi, senza casa, senza nulla da perdere, per forza di cose diventano tutti spacciatori. C’è qualcosa di perverso se si concede l’asilo, ma al contempo l’unica alternativa di vita che si prospetta al rifugiato è la microcriminalità. Sta alla sensibilità politica di ciascuno decidere quale delle due abolire, ma nessun sano di mente può difendere la situazione attuale.
I pochi che hanno un lavoro sicuro, piacevole, ben remunerato, una casa e un partner fedele non capiranno mai i giocatori, perché essi hanno già, inconsapevolmente o meno, vinto la lotteria. Tuttavia, non si può nascondersi o chiudere gli occhi davanti a un fenomeno che sta distruggendo il nostro paese. La crisi economica ha solo accentuato la propensione al gioco, ma la causa profonda è da ricercarsi nella mancanza di opportunità economiche, sociali, di aggregazione o di evasione che il nostro paese permette. Rispolverando il saggio Platone, l’uomo buono è possibile trovarlo solo in una società sana. Il settore dei giochi frutta allo stato italiano circa otto miliardi di euro l’anno. La domanda è una sola: ne vale la pena?