Circondati da carciofi, cavolfiori e carote, Maria Teresa e suo figlio Alessandro mi accolgono con un sorriso. Maria Teresa De Luca fa parte del direttivo dell’associazione “il PomoDoro” di Vicenza, una fattoria sociale per ragazzi con disabilità mentali, psichiche e fisiche.
Accoglienza, formazione e inclusione sono i concetti chiave del loro progetto, che mira a far diventare le persone disabili vere protagoniste del proprio sviluppo sociale e non più dei semplici assistiti.
«Tutti hanno delle potenzialità nascoste, i nostri ragazzi sono diversamente abilissimi» mi dice Maria Teresa mostrandomi la cascina e i lavori di ristrutturazione portati avanti.
Servito l’ultimo cliente, scopriamo meglio come è nato e cresciuto “il PomoDoro”.
Per cominciare, che cos’è “Il PomoDoro”?
“Il PomoDoro” nasce nel 2009 da un gruppo di genitori che hanno figli con problemi.
All’inizio non ci conoscevamo, ma eravamo accomunati dalla voglia di creare un progetto per il futuro dei nostri figli.
Le due mamme da cui è partita l’idea erano in contatto con la realtà della Conca d’Oro di Bassano, dove da una quindicina d’anni esiste una fattoria sociale che funziona ed è un fiore all’occhiello tra le realtà di questo tipo.
Abbiamo iniziato con dei primi incontri, all’inizio sembrava un sogno.
Il progetto doveva riguardare l’agricoltura, perché la terra, se coltivata, dà i suoi prodotti a tutti. Un pomodoro è sempre un pomodoro, che lo coltivi con una disabilità o meno il risultato è sempre lo stesso. L’agricoltura appiana le diversità.
Che cos’è una fattoria sociale?
È un luogo dove i ragazzi possono crescere, dove possono esprimere le loro potenzialità. Anche i ragazzi che sembrano avere meno degli altri, hanno in realtà delle capacità che devono assolutamente essere valorizzate.
L’agricoltura, in particolare, ha dei tempi che non costringono alla frenesia, che è un po’ ciò verso cui spinge la società di oggi.
La corsa, l’efficienza, la competizione, in un’agricoltura che rispetta l’ambiente non ci sono. Quindi il ragazzo disabile trova dei ritmi che sono più suoi.
Come avete ottenuto la fattoria? Da dove sono venuti i fondi iniziali e per la ristrutturazione?
Quando ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a porre le basi per questo progetto cercavamo un posto che prima di tutto non fosse isolato, perché volevamo che si instaurasse un’integrazione con la comunità circostante.
Questa fattoria di Bolzano Vicentino ci è sembrato il luogo più idoneo: è circondata da case, i vicini entrano ed escono, danno una mano. Volevamo evitare che si creasse una sorta di ghetto. Questa cascina e il terreno circostante sono di proprietà dell’IPAB che ce l’ha concessi in comodato d’uso per 25 anni.
I primi fondi li abbiamo ottenuti partecipando a bandi di concorso, ci sono stati dati da Cariverona e li abbiamo investiti nella ristrutturazione. Poi c’è stato un contributo massiccio da parte dei volontari.
Non tutte le realtà hanno un volontariato così presente, partecipe e inserito come il nostro, noi in questo siamo molto fortunati.
Abbiamo poi ricevuto molte donazioni, non di grandissima entità, ma da tante persone diverse che hanno voluto partecipare e credere nella nostra idea. Il nostro progetto, inoltre, non si ferma alla coltivazione, ma prosegue con la trasformazione dei prodotti e la ristorazione, che vorremmo attivare nel prossimo futuro.
Ci è stata anche donata dalla Chiesa Valdese una cucina professionale da fare invidia a Carlo Cracco.
Abbiamo lavorato tanto in questi anni. L’edificio, nello stato in cui lo abbiamo ricevuto, era un tugurio. I lavori sono ancora in corso: le porte, ad esempio, sono state montate poco prima di Natale, ci chiamavamo “Progetto Aperto” anche per questo.
La parte retrostante la stanza adibita a punto vendita era uno spiazzo in terra battuta, ora invece sono state alzate delle pareti e istallata la cucina.
I termosifoni sono stati installati oggi, ma ancora non funzionano. Questi lavori sono stati realizzati, in larga parte, da volontari. Goccia a goccia facciamo tutto.
Cosa producete? Come e dove vendete i vostri prodotti?
Noi coltiviamo verdura di stagione. La prima coltivazione è partita l’estate di due anni fa con le patate. Poi l’anno sorso abbiamo piantato ortaggi estivi e abbiamo avuto un ottimo raccolto. Abbiamo una serra non riscaldata che ci è stata donata e lì siamo riusciti a salvare un po’ di pomodori; quest’anno è stata dura per le troppe piogge.
La nostra filosofia è coltivare solo prodotti di stagione, possibilmente non trattati, quindi nel rispetto dell’ambiente, ma in quanto associazione ONLUS non ci possiamo fregiare della denominazione Bio.
Anche ciò che non coltiviamo direttamente proviene da strutture biologiche che hanno, possibilmente, un collegamento con il sociale o con il disagio in generale.
Il vino, per esempio, viene da un’altra cooperativa di ragazzi disabili che personalizzano tutte le etichette in modo molto creativo.
Dall’anno scorso abbiamo iniziato a coltivare il mais ricavandone la farina e poi, in collegamento con altre associazioni, ne abbiamo trasformato una parte in biscotti e cracker.
Quest’anno è arrivato, per la prima volta, anche il farro e del succo ottenuto da mele trentine di una coltivazione biodinamica. È una pura spremuta di mela fatta dai ragazzi, molto buona, provare per credere.
Il nostro obiettivo, come genitori, è di riuscire pian piano a tirarci indietro, lasciando anche l’aspetto dirigenziale ai ragazzi, pur sempre affiancati dagli operatori.
Non vediamo il loro lavoro come semplice riempitivo, come “parcheggio”, ma come un’attività adeguata alle loro capacità e portata avanti con dignità.
Vendiamo i nostri prodotti in questo punto vendita che abbiamo creato direttamente all’interno della fattoria. Abbiamo attivato anche un servizio che si chiama “il PomoDoro express” attraverso il quale le persone che non possono venire direttamente ordinano delle cassette con gli ortaggi che vogliono e poi le vanno a ritirare in diversi punti della città.
Questo sarebbe anche un bel progetto da portare avanti con un furgone con i ragazzi e un operatore, ma aspettiamo altri fondi per concretizzarlo.
Abbiamo iniziato anche un’attività di apicoltura: le casette delle api sono state colorate dai ragazzi.
Il nostro è un prodotto di qualità, magari non siamo concorrenziali sul prezzo rispetto ai supermercati, ma bisognerebbe girare la questione e chiedersi come mai il prezzo dei supermercati è così basso.
Quante persone lavorano nella fattoria? Quanti ragazzi con disabilità sono coinvolti nel progetto?
Il direttivo è formato da quattro famiglie con figli disabili e da altri membri che collaborano in maniera stabile al progetto. Noi genitori lavoriamo tutti e, con l’aiuto dei volontari, riusciamo a tenere aperto il negozio tutte le mattine e due pomeriggi a settimana.
Da quest’anno è partito un progetto con due operatori per circa una decina di ragazzi con disabilità che si sono aggiunti ai nostri figli.
La parte più prettamente agricola è guidata da un agronomo che fa parte del direttivo e da un agricoltore della zona che collabora molto con noi.
Concretamente, che cosa fanno i ragazzi con disabilità?
Il lavoro dei ragazzi è diviso tra l’attività di raccolta direttamente nel campo e un laboratorio, che varia di giorno in giorno, e che va dall’attività di etichettatura dei prodotti alla trasformazione degli stessi. Nei giorni scorsi, per esempio, abbiamo cucinato dei crauti.
Alessandro, mio figlio, batte in cassa, dà il resto ai clienti e aiuta i volontari nella gestione del negozio.
Per Natale i ragazzi hanno preparato il sale aromatico e hanno confezionato delle cassette, interamente dipinte a mano, con i nostri prodotti. Nei nostri eventi di ristorazione servono ai tavoli. Chi viene da noi condivide un progetto in cui l’attesa assume un nuovo valore: rispettare i tempi della diversità.
Come hanno vissuto i ragazzi l’inserimento in un contesto lavorativo? Sotto quali aspetti questa esperienza è risultata positiva?
I ragazzi sono tutti entusiasti. Sono un gruppo unito.
È molto importante che siano partecipi di tutte le fasi del prodotto. Quest’anno, per esempio, hanno visto piantare il mais, l’hanno osservato crescere. Quando è stato maturo, l’hanno raccolto e sgranato a mano.
Ne hanno curato la vendita e gioito del successo che ha avuto.
Hanno, quindi, assistito a questo processo dal suo inizio alla sua conclusione. È molto importante che i ragazzi percepiscano la logica che c’è dietro un pomodoro. Il nostro obiettivo è di mettere in piedi un’attività che funziona anche dal punto di vista economico, in modo da permettere di partecipare anche a chi non è in grado di pagare un operatore.
Com’è per voi genitori questa esperienza? Avete trovato degli ostacoli man mano che il progetto prendeva piede?
È un’esperienza faticosa, ma che, tuttavia, regala tanta carica e speranza.
Il problema è nel capire come muoversi, perché alla fine stiamo creando un’impresa praticamente da zero, ma nessuno di noi ha mai fatto cose del genere.
Sono mille esperienze nuove in una.
Ho visto dal vostro sito che ospitate spesso gli studenti delle scuole. Cosa dà a voi e cosa dà a loro questa collaborazione?
L’esperienza delle scuole è stata molto positiva, abbiamo ospitato anche gli Scout e dei rifugiati di Vicenza.
Gli studenti che vengono qui lavorano nei campi con noi, arrivando a capire che ci sono delle realtà diverse, che possono capitare a tutti. La cosa bella è che fanno lo stesso lavoro dei nostri ragazzi con disabilità.
Tutti quelli che passano di qui tornano a casa stanchi, ma felici, perché il segreto è sentirsi utili.
Il nostro obiettivo è dare delle motivazioni e uno scopo.
Ai ragazzi delle scuole questa esperienza trasmette sicuramente un po’ di profondità: ai miei tempi eravamo spinti da grandi motivazioni, grandi ideali, speravamo in un mondo migliore, aiutavamo, eravamo coinvolti perché era politicamente giusto.
Questa cosa oggi un po’ manca. Manca un certo bisogno di sociale.
Forse è proprio la necessità di efficienza e di competitività ciò che penalizza i ragazzi di oggi. Qui non ci sono prestazioni, ognuno fa quello che deve fare con i suoi tempi e i propri limiti. E di fronte a un compito da portare a termine, da tutti emergono potenzialità inaspettate.
Qual è l’attività che avete promosso di cui andate più fieri?
Un’iniziativa che ci ha dato molta soddisfazione è stata la festa che abbiamo organizzato a settembre. Abbiano preparato una cena sotto i portici della fattoria – quindi ancora in una situazione molto precaria – cucinando tutto nelle case di genitori e volontari, perché ancora non avevamo una cucina funzionante.
Non ce l’aspettavamo, ma sono venute più di 250 persone.
Si è creato un clima di entusiasmo, di famiglia, che ha coinvolto tutti.
Lasciamoci con uno sguardo verso il futuro. Che progetti avete in mente?
Come obiettivo per il futuro ci poniamo sicuramente la ristorazione.
La nostra ricetta sarà: prodotti di qualità e riciclo. Oltre a questo rimaniamo fedeli al sogno che ci ha spinti a mettere in piedi “il PomoDoro”: creare un luogo aperto a tutti, in cui andare per trovare qualcosa che negli altri posti non si trova. E non parliamo solo di prodotti…