“Il Risorto”: un progetto per ridare vita alla voglia di stare all’aria aperta

Data: 01/12/11

Rivista: dicembre 2011

Al Centro Socio Educativo di via Gramsci non mancano mai nuove, stimolanti iniziative da proporre, e i suoi operatori lavorano per tenere viva la voglia di fare, cercando sempre spunti nuovi. Abbiamo intervistato il responsabile del Centro, Luca Vareschi e l’operatore Maurizio Menestrina riguardo all’iniziativa che hanno rilanciato quest’anno insieme all’Anffas: Il Risorto.

Dal nome si può forse già intuire che questo progetto ha tentato di prender vita più di una volta. Dopo lo schizzo di un’idea realizzata soltanto sulla carta, gli operatori del Centro di via Gramsci hanno concretamente ridato vita al vecchio orto abbandonato, situato nello spazio degli orti della fondazione Crosina Sartori Cloch.

Quando ha preso vita questo progetto?

La storia dell’orto affonda le sue radici qualche anno fa. La prima idea del progetto è nata nel ‘91-’92, qui al Centro Socio Educativo di via Gramsci grazie ad un operatore appassionato di botanica. Con l’aiuto dell’associazione Cosina Sartori Cloch era riuscito ad ottenere un pezzo di terra e con il gruppo di ragazzi aveva iniziato a lavorarci. Il lavoro veniva suddiviso tra momenti all’aperto e momenti trascorsi all’interno del Centro, durante i quali si preparavano le piantine da trapiantare in vista dell’arrivo della primavera.

Dalla prima “nascita” ci sono state alcune battute d’arresto. Di recente col nostro gruppo di operatori, abbiamo deciso di riprendere in mano il progetto rifacendoci alle esperienze e idee passate, ma cercando nuovi spunti. Abbiamo dunque proposto un piano di riorganizzazione dell’orto che è passato attraverso la programmazione e al confronto della nostra pedagogista. Lo scopo era farlo tornare in vita, perciò il nuovo nome ci è venuto naturale: “Il Risorto”.

L’ambizione è stata quella di far nascere un ambiente sicuro, curando il piacere alla convivenza alla tranquillità, in un ambiente verde. Un luogo alternativo per socializzare, con persone che condividono la medesima passione per gli orti. Chi tra i nostri ragazzi può, lavora e aiuta, e chi non è in grado di farlo beneficia di questa realtà. Per loro vuol dire molto stare in un luogo aperto come questo invece che in un luogo chiuso.

Come riuscite ad integrare questa attività con le altre che proponete?

Siamo riusciti a far ruotare tutto il nostro mondo intorno all’orto.

L’attività di ippoterapia ad esempio poteva tornare utile all’orto, fornendoci concime. Il quale è poi diventato pretesto per coinvolgere gli anziani degli orti vicini: noi regalavamo loro concime in primavera e loro ci donavano acqua in estate. Naturalmente tutte le attività sono autorizzate e concordate con chi ha la supervisione pedagogica del Centro. Inoltre ci tengo a dire che tutto quello che abbiamo fatto è sempre stato un lavoro di squadra.

Ognuno ci mette del proprio e insieme si scambiano esperienze e pensieri.

Cosa vuol dire avere un orto così?

Siamo arrivati pian piano al terzo anno di attività! Abbiamo lavorato ulteriormente sull’accesso, sulla facilità di interazione con l’orto, eliminando il più possibile gli ostacoli. Abbiamo avuto l’idea di creare un vivaio sopraelevato che permettesse di essere lavorato anche dai ragazzi che sono sulla sedia a rotelle. L’idea di poter far toccare la verdura, direttamente sulla pianta per alcuni utenti era un’ipotesi impensabile.

Nella realizzazione dell’orto rialzato è tornato in campo il nostro interesse per il riciclo, perché grazie ad un vecchio steccato di legno che sarebbe stato buttato via, abbiamo trovato il materiale ideale per formare una sorta di grande vasca, un contenitore dove in seguito è stata aggiunta la terra e, sempre facendo collaborare i ragazzi, sono stati poi piantati i semi.

Pulendo e sistemando abbiamo dimostrato che l’accesso per tutti poteva essere una realtà concreta. A lavori terminati l’orto era a portata di mano anche delle persone in carrozzina, ed accessibile a 360 gradi, perché circondato da un ampio spazio.

Per quanto riguarda la sicurezza l’idea è stata quella di recuperare dei vecchi copertoni da collocare in sostituzione al cemento. Come omaggio per i 150 anni d’Italia, sono stati dipinti e disposti a tre a tre per formare la bandiera Italiana. Grazie al gioco cromatico creato sui copertoni è stata messa in evidenza l’entrata al giardino che ora è visibile, ampia e soprattutto sicura.

Ha avuto luogo qualche tipo di inaugurazione?

Sì, precisamente in occasione della festa di fine estate nell’ambito del progetto “Do ciacere en compagnia”. Per noi è stato un avvenimento straordinario.

Voglio cogliere l’occasione per ringraziare Giuseppe Melchionna per essersi offerto a fare il taglio del nastro, per noi è stato davvero un piacere.

La cosa fondamentale è l’aver dimostrato che anche con niente si possono raggiungere dei traguardi.

Non è detto che in futuro si potrà perpetuare questo progetto, ma non possiamo dire nemmeno il contrario, perché c’è la volontà di mettersi in gioco e credo che questo l’orto lo abbia dimostrato.

Avete riscontrato partecipazione da parte dei ragazzi del centro?

Beh prima di tutto abbiamo notato che il nostro comportamento, come operatori, ma saprattutto quello dell’utenza, si modifica, cambia: si nota molta più elasticità, molto più piacere nell’affrontare le cose. Proprio per questo pensiamo di poter affermare che l’orto non cura, ma l’orto è una possibile cura. Non modifica neurologicamente lo stato dei ragazzi, le loro ansie e paranoie, ma influisce su di essi positivamente. Questo è possibile grazie alla tranquillità che si respira tra il verde degli orti e la bellezza del lavorare e stare insieme.

Mi piace ricordare una ragazza in particolare che al Centro è solita essere spesso inquieta, ma straordinariamente nell’orto non ha mai manifestato ansie, mai una volta l’abbiamo sentita lamentarsi. Ancora, Roberto un ragazzo cieco, ha tante possibilità, ma non ha voglia di applicarsi ed è difficile riuscire a coinvolgerlo nelle attività. A piccoli passi però ha iniziato a trovare interesse nel zappare la terra e nell’apprezzare le piccole cose. Ormai ha interiorizzato la frase: “vieni che andiamo a vangare l’orto”e abbina ad essa un significato positivo. Ha avuto l’opportunità di trovare famigliarità con concetti nuovi che prima gli erano astratti, indefiniti.

Come descrivereste dunque quest’esperienza?

Avere un orto, mangiare fuori, vivere in un certo contesto, e abbellirlo ha favorito anche il rapporto con la fondazione Crosina Sartori Cloch. Per cui possiamo dire che l’orto è lo spunto per costruire anche altro. Per noi non vuol dire solamente lavorare la terra, ma attraverso essa tessere relazioni e realizzare qualcosa di utile per gli altri.

È una grande soddisfazione poter vedere il risultato di ciò che si è seminato e poter dire “Questo l’ho fatto io”. Anche nei ragazzi abbiamo riscontrato entusiasmo. Poter vedere e toccare con mano i frutti del loro lavoro gli ha regalato tanta soddisfazione.

Riuscire a prolungare il progetto per un anno, abbinandolo poi ad altre proposte di attività ha creato un contesto piacevole, che ha motivato gli operatori e influenzato positivamente gli utenti.. Questo progetto non solo è nato, ma è anche risorto e per noi questo vuol dire molto.

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