Me ne stavo lì, nel mio comodo pacchettino, vivacemente decorato con disegni coloratissimi e scritte ammiccanti. Aspettavo il mio turno, pazientemente.
Non ero lì da molto, appesa ad un gancio nel reparto accessori. E sapevo che non ci sarei rimasta a lungo: mi ero accorta di quanto rapidamente le mie sorelline se ne fossero partite per sempre, afferrate da decine di mani, passate frettolosamente sotto lo scanner della cassa ed infilate in sacchetti, borsette, tasche.
E dunque, me ne stavo lì in attesa, tranquilla. Questione di giorni, ore, forse solo di minuti e anch’io avrei imboccato la mia strada. Solo, mi pizzicava un tantino la curiosità: a chi sarei appartenuta? Che vita mi avrebbe fatto vivere? Non c’era che da aspettare. Giorni, ore, forse minuti: poi avrei saputo. Da quel momento, avrei dovuto lavorare sodo, perciò perché non godersi ancora un po’ di quiete prima di essere gettata nella mischia?
Il giorno arrivò. Dita eleganti, inanellate e ingentilite da un deciso smalto rosso mi acciuffarono, mi scambiarono con qualche banconota e mi trasportarono a quella che credevo fosse la mia destinazione.
Ahimè, mi ero illusa. Dopo un paio di giorni, ero ancora imprigionata nel mio involucro, bello finché volete ma un po’ opprimente. Peggio ancora: anziché liberarmi, le stesse dita – questa volta smaltate di viola – mi avvolsero in carta colorata, mi strozzarono con un nastro bianco e così conciata mi cacciarono in un posto buio, un cassetto o un armadio, non so non vedevo più niente.
Cercai comunque di mettermi tranquilla. Non poteva continuare così, non ero nata per fare la mummia. Presto o tardi mi avrebbero dato la possibilità di dimostrare le mie capacità. Pazienza, mia cara, pazienza.
Lo ammetto, ero mezza assopita. Ma mi svegliai immediatamente e fui assalita da una forte eccitazione, quando mi afferrarono, mi sballottarono per bene e mi propinarono un nuovo viaggio. Non vedevo nulla, ma qualcosa mi diceva che quella era la svolta decisiva. Il mio destino era segnato.
Poco tempo dopo, vidi la carta stracciarsi fragorosamente attorno a me e tornai a rivedere la luce. Nuove mani che mi rigiravano curiose ed interrogative. Mani piccole, rosee e lisce, con segni di pennarello sulle dita. Mani di bambina. La stessa bambina che, tempo dieci secondi, mi gettò in mezzo ad altri oggetti, tutti nuovi come me, per lo più ancora imballati come me. E tristi come me, in preda ad una crisi da abbandono.
Ma come? È il modo di trattare dei regali belli ed utili? Ma la bambina era lontana, nella stanza accanto, a strafogarsi di tramezzini e pizzette per festeggiare la sua Prima Comunione.
Finalmente, verso sera, la zia riprese in mano la situazione. La zia, quella con le unghie colorate, quella che mi aveva acquistato e regalato. Prese con una mano la nipotina, con l’altra me ed il cellulare nuovo di zecca e, senza smettere un attimo di parlare, mi tolse la plastica di dosso e mi spinse con decisione nella pancia del telefonino. Di nuovo al buio, ma non mi dispiaceva affatto: quello era il posto giusto per me. Significava l’inizio della mia vera vita.
Sono pronta, usami, sono nata per questo. Sono la tua prima SIM card.
Delusioni. Ancora delusioni. Usami, sì, ma nel modo giusto! Siamo depressi entrambi, io ed il mio collega cellulare. La bambina si ricorda di noi solo per giocare a mamma casetta con le sue amiche: dà loro il telefonino di plastica, quello vecchio, quello finto, e parla tenendo in mano noi. Non spinge un tasto, a che le serve? Le sue amichette sono lì, a due metri di distanza.
Una SIM muta, che controsenso. Che umiliazione. D’altra parte, nove anni, a chi dovrebbe telefonare? Alla maestra, di domenica? Alla mamma, per parlare dalla camera alla cucina? Tempi difficili per me, i primi tempi.
Due anni, e cambiò tutto. All’improvviso non fu più bambina, la sua camera si trasformò, i vecchi vestiti lasciarono spazio ad altri, per nulla somiglianti ai precedenti. E toccò pure a me, venir fagocitata da quella nuova esistenza dominata dal turbinio degli entusiasmi e delle passioni, dalla folle inarrestabile altalena dei sentimenti. Mi ritrovai a lavorare come una pazza, giorno e notte. Non mi spaventava la fatica. Ma, ancora una volta, ero delusa.
Tutto il mio sapere, inutilizzato. Il mio ricco vocabolario, ignorato per far spazio a strane sigle e contrazioni incomprensibili, stipate nel misero spazio di 160 caratteri. E messaggi su messaggi, e pollici frenetici a schiacciare tasti ormai logorati.
A me tutto sommato andò bene: non mi gettò mai nel cassonetto, come fece più volte con i poveri telefonini che mi avevano ospitato e protetto, rovinati per la sua incuria o caduti in disgrazia perché non più alla moda oppure perché privi di qualche nuova, inutile funzione. Con me continuò stranamente ad essere fedele, trasferendomi da un cellulare all’altro. Non so se fu un bene. In ogni caso, la accompagnai nella sua storia.
Se il vocabolario giaceva inutilizzato dentro di me, in compenso la rubrica traboccava di nomi e numeri. Soprattutto ragazzi, soprattutto più grandi di lei.
Non posso permettermi di fare la moralista, sono solo un misero tassello di plastica più piccolo di un francobollo: ma certo gli sms che inviava mi mettevano un po’ in imbarazzo… Per fortuna, sua madre non riuscì mai a leggerli, non conosceva la password la poverina.
Ad un certo punto mi ritrovai appesantita da un sacco di foto. Le scattava ovunque, a scuola per strada in casa, e come ridevano lei e le sue compagne nel guardarle insieme. Poi, quasi smise. Quasi. Perché le poche che ancora scattava, le faceva da sola nel bagno di casa. Le faceva a sé stessa, le prime volte era in mutandine, poi non aveva addosso più neppure quelle.
Non ridevano, guardandole, i ragazzi ai quali le mostrava. Avevano uno sguardo inebetito, la voce balbettante. Qualche euro lo trovavano sempre, per potersele trasferire sul proprio telefonino e riguardarle con calma alla sera, sotto le lenzuola, sognando di averla lì con loro, nuda come loro.
Erano contenti, lei anche: con i soldi che le davano poteva comperarsi qualche maglia costosa, un paio di jeans di marca, che sua madre credeva regalati al compleanno da amiche troppo generose.
Quando il tempo della scuola terminò, ero ormai disincantata. Sapevo che quella che chiamano la maturità non avrebbe portato a grandi cambiamenti. Mi ero fatta un’idea del tipo di persona alla quale ero finita in mano.
Mi usava come andava bene a lei, era giusto così. Ma non mi sentivo davvero utile.
Numeri di amanti, molti. Messaggi banali, un’infinità. Altri messaggi, brevi ma feroci. Scritti per ferire in profondità. E poi telefonate, a volte lunghe, solitamente vuote. Immagini, talvolta morbose: un cadavere a terra, dopo un incidente stradale. Un barbone preso a calci da degli sconosciuti. Qualche attore o cantante, sfuocato.
Mi sentivo vecchia, e forse lo ero davvero. Oppure avevo perso l’energia degli inizi, le illusioni di cui mi ero nutrita erano svanite da tempo.
Quel giorno faceva freddo, pioveva sull’autostrada. Una pioggia incessante e scura. Ero lì, a portata di mano, sul sedile del passeggero, chiusa dentro l’ennesimo nuovo cellulare punteggiato di minuscoli swarovski. Entrambi silenziosi, noi due, per lasciare spazio alla musica ed alle chiacchiere dell’autoradio.
Non ricordo quale amica decise di chiamarla proprio in quel momento. So solo che lei, d’istinto, afferrò il suo nuovo gingillo, sollecitata da una suoneria ritmata ed invitante. Non resistette alla tentazione di vedere chi la stava cercando. Probabilmente riuscì a leggerne il nome sullo schermo, prima di schiantarsi contro il camion che la precedeva e che stava frenando bruscamente, rallentato da un altro veicolo più lento.
Me la cavai. Fui estratta dal cellulare, già distrutto dopo pochi giorni di vita, mentre io ero tutta intera, con la mia infinità di inutili nomi e parole e numeri e foto.
Lei, la estrassero dalle lamiere sotto la pioggia, ma dentro di sé non aveva più nulla di vivo.
Ripensai a quelle dita di bimba, che mi avevano sfiorato con curiosità la prima volta. Era passato molto tempo, ma cosa conservavo di tutti quegli anni? Nulla che potesse servire ad altri. Nessun messaggio che valesse la pena leggere, il giorno del suo funerale. Nemmeno un ricordo capace di far piangere un amico, un parente.
Giorni dopo, qualcuno finalmente mi prese e cancellò ogni mia memoria. La mia vita ripartì da lì.