L’idea per un’indagine sulla situazione dei bambini affetti da sindrome di Down ci è venuta quest’estate, a seguito del caso di un bambino rifiutato ad un corso di nuoto in piscina. Allora il fatto aveva suscitato molto scalpore, fino a costringere le autorità ad intervenire per placare gli animi. Non essendo facile stabilire se si sia trattato di un caso isolato o se gli affetti da questa sindrome si trascinino ancora dietro diffidenza se non rifiuto, abbiamo contattato due famiglie, una trentina e una veneta, entrambe con una figlia Down, perché ci parlassero delle loro esperienze.
Iniziamo con Manuela, la mamma della giovane di Trento, che così presenta la figlia Lara: Ha tredici anni, sta scegliendo la scuola superiore (vorrebbe iscriversi all’IPC per lavorare in ufficio con papà) e in generale è una ragazzina serena. Nel descriverla utilizza gli stessi termini e le stesse frasi che usa per parlarci del fratello maggiore, come se anche Lara fosse una qualsiasi, comunissima ragazza: è la mamma la prima ad accettare Lara, senza farle pesare il suo essere speciale. Anche la comunità in cui la famiglia vive è stata molto accogliente e sensibile: la giovane ha frequentato le scuole del paese ed è cresciuta con gli amici dell’oratorio che la conoscono e le vogliono bene.
La sua storia è strettamente legata all’Associazione Piccoli dell’ANFFAS, che l’ha seguita, con il resto della famiglia, sin dal momento del parto. Manuela è stata avvicinata dalla signora Bassi, presidente della sezione trentina dell’associazione, in ospedale e da quel momento ha camminato grazie al sostegno di questo ente qualificato. Il Centro Piccoli collabora con molti specialisti offrendo consulti medici personalizzati, si occupa del tempo libero dei ragazzi con attività anche ludiche, fino all’inserimento nel mondo del lavoro.
Lara è una ragazza vivace e piena d’interessi, anche se quando viene a contatto con persone che non conosce sembra timida. Brava nuotatrice, frequenta la piscina da molti anni senza problemi, gioca a biliardo e calcetto. Suona inoltre il piano con l’associazione Cantare Suonando. Passa molto tempo al computer e ama disegnare, soprattutto per la sua mamma. I suoi disegni sono dolcissimi: “mamma sei bellissima, profumata, morbidissima…” parole che tutte le mamme vorrebbero sentirsi dire.
Altro discorso per Monica, giovane residente in un paesino in provincia di Belluno. Alla sua nascita il primario dell’ospedale ha consigliato ai genitori di rivolgersi ad un’associazione specializzata. La coppia entrò allora in contatto con l’AIPD (Associazione Italiana Persone Down), che ha sede a Padova, ma offre delle consulenze anche in altre province. L’ente organizza degli incontri rivolti ai genitori per illustrare normative e informare le famiglie sui loro diritti e i loro doveri. Numerose le iniziative portate avanti come Musicolorando, rivolta ai piccoli, ed escursioni organizzate con la collaborazione dell’Ente Parco delle Dolomiti Bellunesi e l’associazione Porta.
Monica non ha amici, accenna sconsolata la mamma. Paradossalmente tende a stressare le poche persone che le stanno accanto. Io stessa ho tentato di legare con la famiglia di un altro bambino Down, ma è stato inutile, loro lo considerano un ragazzino normale. Interviene allora il papà, allargando il discorso: La società non ha più tempo per le persone «diverse». Anche Monica, come Lara, ama il computer, legge molto e passa pomeriggi interi con la mamma al centro commerciale.
Secondo i genitori la scuola è il principale contesto di socializzazione. La ragazza infatti frequenta il primo anno dell’Istituto Agrario. La scelta è legata ad un progetto per la fondazione di una cooperativa al fine di gestire un agriturismo fortemente caldeggiato dal gruppo bellunese dell’AIPD.
L’associazione sta anche seguendo un progetto di l’inserimento dei soggetti portatori della sindrome nel contesto lavorativo. Condizione indispensabile per ottenere questo risultato è l’autonomia. La disponibilità è ristretta a sole cinque o sei persone che abbiano compiuto sedici anni: Monica entrerà probabilmente il prossimo anno.
Confrontando le due situazioni, si vede come nel caso di Lara, la famiglia abbia puntato, per la sua integrazione, più sulla comunità del quartiere, la scuola e il gruppo parrocchiale, rispetto a quella di Monica i cui genitori confidano di più in un suo inserimento in un ambito lavorativo che l’avvicini il più possibile ad una vita normale. Non esprimiamo alcun giudizio di valore sulle due strategie adottate dal contesto, genitori, scuola e autorità per aiutare Lara e Monica a superare il loro handicap: probabilmente ogni caso fa testo solo per se stesso.
di Marina Rosset e Elisa Zancanella