A metà ottobre avevamo chiesto un’intervista all’Arcivescovo della diocesi di Trento, Monsignor Luigi Bressan e, nonostante i numerosissimi impegni pastorali del vescovo, ben presto siamo stati accontentati: appuntamento fissato per mercoledì 23 ottobre. Alle ore nove eccoci in Arcivescovado in piazza Fiera dove siamo accolti con molta disponibilità. L’intervista, dal tono decisamente colloquiale, è durata una mezz’oretta durante la quale il nostro autorevole interlocutore ha espresso le sue opinioni in tema di disagio, disabilità ed integrazione, in materia di lavoro, sulla comunità civile e su problematiche del mondo dei giovani ma non solo senza escludere l’ambito ecclesiale, nel quale è attiva da due anni una commissione per la catechesi dei disabili.
Ad ogni nostra richiesta le Sue parole sono state la concreta testimonianza di sensibilità ed attenzione verso chi, disabile e “disagiato”,si trova quotidianamente ad agire in una società in cui fa ancora fatica ad essere accolto ed a vedersi valorizzate le potenzialità.
Le sembra che la nostra società abbia fatte sue le parole “il fratello handicappato è una persona di diritti sacri e di doveri, pienamente umana, prima ancora di essere un disabile?”
Mi sembra che spesso la società accosti le persone più per le apparenze che per l’essere. Ciò vale per tutti, per l’anziano come per il bambino che si vuole vestito, ad esempio, in quel dato modo. Poi viene la persona,ma il primo approccio rischia di classificare le persone in categorie, secondo anche la relazione che esse stabiliscono con noi e secondo la loro capacità produttiva. Globalmente parlando si classificano le persone adulte che possono rendere e si lascia da parte sia i bambini sia gli anziani, sia chi non è pienamente efficiente come fosse di seconda categoria.
Come potrebbe commentare le parole di don Primo Mazzolari: “Ci impegnamo non per rifare il mondo su misura, ma per amarlo, perché dietro ad ogni volto c’è quello di Cristo?”
Tendiamo a classificare il mondo ed a creare delle strutture in cui tutti dovrebbero classificarsi. In realtà ognuno di noi ha una sua individualità e siamo chiamati ad amare le persone così come sono, con le loro individualità. Come cristiani poi sappiamo che nel fratello vi è Cristo, nel disabile come nell’anziano. Tutti siamo chiamati a saper accogliere gli uni gli altri, a sostenerci con la nostra identità personale e non per classi sociali o per classificazioni.
Quali mezzi Lei individua per una dignitosa integrazione delle persone disabili nella comunità civile? Ed in quella ecclesiale?
Per noi è soprattutto la diffusione del pensiero della dignità di ogni persona, quella potenzialità che esiste in ognuno e la capacità effettiva di dare un contributo, perché anche l’anziano costretto a letto dà un contributo alla società. Oltre a questa idea fondamentale bisogna aiutare tutti (anziani, disabili) a dare un contributo attivo e a sviluppare la potenzialità che possiede, a seconda dei doni distribuiti a tutti in modo variabile. Non si può parlare se vale di più l’intelligenza o la sensibilità, la forza fisica o la capacità di accoglienza, di relazione, di sorriso.
La società deve lavorare in questo senso; poi ci sono dei passi concreti per cui si devono prevedere spazi per chi è meno favorito o perché ha potuto studiare meno, o perché ha difficoltà, di carattere o fisiche, affinché possa partecipare pienamente alla vita sociale ed ecclesiale.
Anche nella Chiesa ci sono dei passi ulteriori da fare per l’accoglienza verso i disabili, ma molto dipende sia dalla sensibilità dei sacerdoti nelle parrocchie sia dalla comunità. Deve esserci integrazione fra le due realtà: il parroco va aiutato per certi aspetti e la comunità deve sapersi aprire ai separati, ai divorziati, a chi non riesce a controllarsi nel campo della droga o dell’alcool.
Il lavoro assume una consistenza etica perché, se inteso in senso soggettivo, il valore trascende l’efficienza; qual è il Suo pensiero in proposito riguardo all’inserimento del disabile nella società lavorativa?
Non si tratta di un diritto legato all’efficienza, il contributo che si deve dare alla società; c’è anche questo, ma il lavoro è anche legato alla serenità di una persona, cioè poter svolgere un’attività, normale o intellettuale. Il lavoro dà la dignità alla persona, non solo guadagno. Ogni uomo deve poter fare un lavoro remunerato, anche nel lavoro autonomo, anche nel lavoro di casalinga.
Ognuno deve poter esercitare il lavoro secondo le proprie potenzialità e la propria età.
Può diventare così anche volontariato in età anziana, ma non eliminato perché non rientra nel sistema produttivo, rimunerato.
Ritiene utile la presenza in diocesi di una commissione per la catechesi dei disabili cioè per una catechesi aperta a tutti?
È utile per una sensibilizzazione delle problematiche sia che parlino dei bambini molto vivaci, sia delle catechesi dei disabili.
Poi ci sono aspetti particolari a seconda dei vari tipi di disabilità, perché compito della Chiesa è poter aiutare tutti nella varietà delle situazioni. La presenza di una commissione cerca di adeguare la risposta e l’offerta a seconda dei vari tipi di persone o delle problematiche che le famiglie sollevano.
Come far fronte al dilagare del disagio giovanile alla luce degli ultimi terribili fatti di cronaca?
È un problema di educazione dei giovani, di coscienza e di responsabilità che tutti devono assumere della vita. Ma oggi appare in TV che tutto è facile, tutto è lucente; bisogna però affrontare anche la fatica e sapere che non possiamo solo avere, ma dobbiamo anche dare. La risonanza che i mezzi di comunicazione danno di certi fatti è notevole,l’impatto sui ragazzi è deleterio tanto che uccidere è quasi un atto normale. Psicologie deboli portano ad atti estremi, ad imitazioni; al primo contrasto i ragazzi si ribellano. Non si parla nemmeno del concetto di morte nel modo giusto, nella sua valenza naturale, come non si parla del giudizio universale e delle conseguenza punitive del male fatto. Le realtà ultime sono messe da parte, non interessano. E poi vediamo i drammi di fronte alla morte specie dei giovani.
Su questa tema l’intervista si avvia alla conclusione. Chiediamo a Sua Eccellenza il permesso di scattare una foto con cui accompagnare su pro.di.gio. l’intervista. Egli dando prova della sua grande disponibilità, chiama il suo segretario don Corrado e lo incarica di fare alcuni “scatti”. Seguono altre parole in libertà dopodiché ci salutiamo con grande simpatia. Qualche minuto ancora e siamo sulla piazza contenti e orgogliosi per l’incontro.