Quando chiedo a Petrit se ha dei bambini, sorride mostrando un diastema ben accentuato.
Ne ha due, di bambini, e ha dato loro nomi internazionali; nati cittadini globali perché possano scegliere il posto in cui vivere, passando inosservati.
Petrit, (in arte Pedro), è nato quarantaquattro anni fa a Skutari, in Albania, e per ora non desidera tornarci. Gestisce una briocheria notturna nel quartiere Ticinese di Milano e di notte, dice lui, le persone sono più simpatiche, più aderenti alla loro reale identità, tanto che Petrit durante il giorno, se non sta dormendo o orchestrando iniziative per sbarcare il lunario, stenta a riconoscere anche i clienti affezionati. La trasgressione notturna non lo intimorisce. Non si aspetta dei Signori ma si reputa in grado di gestire le situazioni.
La gavetta deve averla fatta in Albania, ai tempi delle razzie anarchiche in seguito alla caduta del regime comunista e forse ancora prima, ai tempi in cui si dovrebbe fare i bambini.
“Sono rimasto orfano di padre all’età di dieci anni, non ho potuto proseguire gli studi e una delle cooperative statali mi ha dato lavoro come dirigente statale. O dirigente o operaio. Non era la meritocrazia a scegliere, era la politica. Poi, negli anni ‘90 quell’epoca è finita.
La sicurezza non era più garantita, il lavoro c’era ma le regole, nell’euforia della libertà, non venivano rispettate.”
Non rimpiange il comunismo ma sì lo spirito politico. Sulla situazione italiana attuale non si sbilancia, gli scappa un “faziosi” riferito agli italiani e denuncia l’incapacità istituzionale di gestire le nostre risorse. “Avete il cinquanta per cento delle opere d’arte di tutta Europa e sembra che non ve ne accorgiate nemmeno.”
L’accento forestiero non si fa notare; lui qui si chiama Pedro, custode di aneddoti che gli hanno insegnato a limare la propria pronuncia. “Le signore apprezzano le mie doti comunicative sul lavoro, ma non appena vengono a sapere da dove vengo, si irrigidiscono.”
Rispetto all’attitudine italiana nei confronti dei migranti Patrit intravede la vendetta. Il loro passato da immigrati li ha costretti a subire angherie e soprusi. Affinché dimentichino deve passare del tempo, perché la tolleranza venga tramandata alle generazioni successive.
Ci tiene a non cadere nel tranello della generalizzazione facile, del flusso mediatico che parla solo in base a interessi prestabiliti, e crede nel contatto diretto tra le persone, unico veicolo di esperienza concreta. “Ognuno rappresenta se stesso. Nessun altro, al massimo la propria famiglia.”
Insomma, Petrit è un empirista e vorrebbe poter lavare via la macchia del pregiudizio, l’eredità del passato. Ma è altrettanto pronto a riconoscere gli angoli bui del suo Paese. “Quando sono state aperte le carceri le persone sono scappate nei paesi vicini: Grecia e Italia. Assieme ai prigionieri politici sono fuggiti anche i criminali. Io mi vergogno.”
Petrit è rimasto a Skutari fino al ‘97; non capiva perché tutta quella gente stesse abbandonando il paese. “Si stava ancora bene – racconta mentre taglia in spicchi una focaccia – poi però hanno rapinato il mio negozio. Sono andato avanti ma le cose non cambiavano. Bisognava scegliere. C’era il rischio di finire dalla parte sbagliata, da onesti non si campava, bisognava difendersi e per difendersi non ci sono buone maniere. Io ho scelto la vita.”