Intervista all’assessore Violetta Plotegher

Data: 01/04/06

Rivista: aprile 2006

A quasi un anno dall’inizio dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Trento della dott.ssa Violetta Plotegher siamo riusciti ad inserirci nella sua fitta agenda, per conoscerla e per chiederle di fare un primo bilancio.

Perché gli uffici della polizia municipale si trovano vicino a quelli dei servizi sociali?

La polizia municipale, oltre al ruolo di sanzionare i cittadini, ha il compito di andare in borghese a visitare le famiglie, seguire situazioni di difficoltà, andare sulla strada. Conoscono le realtà degli immigrati molto più di quanto non immaginiamo e conoscono le situazione di vita dei giovani. La polizia municipale ha un’enorme dimensione di servizio sociale alla comunità. Voglio smentire la dimensione repressiva. L’operatore sociale deve andare verso le persone che sono in difficoltà ed è aiutato in questo anche dalla polizia municipale.

Per quanto riguarda l’assistenza domiciliare si stanno rivedendo i regolamenti: si cercherà di tener conto delle differenze tra gli utenti disabili e gli anziani, due categorie ora soggette alla stessa regolamentazione?

Ora c’è la possibilità di deroghe. Ci riferiamo a delle regole definite a livello provinciale. Finché non se ne assegnerà all’ente locale la titolarità, questo non potrà definirne i criteri di impianto e le modalità di partecipazione alla spesa del cittadino. L’ente locale si trova ad essere gestore, ma non ha la dignità politica di decidere le strategie di amministrazione. È una situazione penalizzante, per me inaccettabile su molte dimensioni. È importante un governo per situazioni sovra-comunali, che vanno mantenute in regia, però ad un comune come Trento, che ha una certa dimensione, una specificità territoriale, con sottospecificità nelle sue varie circoscrizioni, servirebbe qualcosa di più. La città è la dimensione ideale per essere vicini ai cittadini e ai suoi bisogni, ma se la città non ha dal punto di vista politico l’autonomia propositiva, gestionale e finanziaria, può perorare cause, ma chi ha queste risorse è chi governa. Trento è una realtà fortunata e dal punto di vista dei servizi non c’è paragone con altre realtà, ma dal punto di vista della dignità politico-amministrativa delle politiche sociali, noi siamo più deboli rispetto ad altri comuni di regioni non autonome. Sulla legge 14 abbiamo convenzioni e funzioniamo da tramite tra la provincia che mette a disposizione risorse finanziarie e le cooperative che gestiscono il servizio di assistenza domiciliare.
Faccio e farò tutto quello che posso tenendo conto della situazione politica nella quale siamo.

Sempre più spesso si parla di disagio sociale, com’è la realtà della città di Trento?

Quello che è un disagio che io chiamo relazionale si sta diffondendo nella nostra città come in altre realtà urbanizzate. Occorre interrogarsi su tante cose: c’è una crescente vulnerabilità sociale, non solo legata ad una dimensione economico-lavorativa, ma è relativa ad una minor presenza di legami amicali e parentali attorno alle persone. La dimensione depressiva può essere un periodo della vita causato da situazioni difficili, come un lutto, è una fragilità temporanea. Più c’è sostegno e più sono i legami, più la persona può recuperare fiducia. C’è poi una diffusione di disagio psichico da leggere con attenzione: pare ci sia una persona su cinque che cerca risposte al malessere interiore con richieste al medico di ansiolitici e sedativi che sono tra i farmaci più diffusi. Ne fanno uso di più donne e giovani. Questo è fino ad un certo punto una risorsa buona per risolvere i problemi, ma non è forse il caso che ve ne siano altre accanto? Cosa porta a dedicare meno tempo alla costruzione dei legami con le persone, senza essere vittime di qualcosa che viene da fuori? Perché dedichiamo poco tempo alla costruzione e alla cura dei legami, perché cerchiamo il senso della vita in altre cose? Chi ha allevato le coscienze delle persone e indicato lo stile di vita in qualcos’altro?
Come politiche sociali bisogna sapere che è necessario capitalizzare la dimensione relazionale, il capitale sociale fa parte di questo.

L’assistenza domiciliare va governata, ma c’è una dimensione che può sostituire i legami relazionali?

Noi abbiamo dentro le nostre case un elettrodomestico molto significativo; io non lo voglio demonizzare, ma cosa porta l’ascolto passivo di storie che trasmettono emozioni, ma non costruiscono legami? Il nostro benessere di persone è legato alle relazioni che abbiamo. Dovremmo chiederci con chi stiamo bene. Una volta la famiglia allargata permetteva di contare sui legami parentali; ora le amicizie le coltiviamo solo per andare a divertirci? Ai ragazzi non servono granché i vari corsi di educazione se non insegniamo l’importanza delle relazioni, delle amicizie.
La dimensione relazionale si imposta nei primi tre anni di vita, con i primi legami affettivi stabili a base sicura e i successivi tre per la costruzione delle capacità di socializzazione; poi durante la scuola si possono fare gli interventi educativi.
La prima cosa su cui è necessario reimpostare l’educazione è proprio questa competenza relazionale.

Quali momenti della sua vita l’hanno portata ad avvicinarsi alle politiche sociali?

Ad un certo punto della mia vita ho pensato ad una professione che mi permettesse di mettermi in gioco direttamente vicino alle persone e quindi ho scelto medicina. Meno interessata alle dimensioni tecnologiche, più alla dimensione relazionale della professione. Poi ci sono stati tanti percorsi, attraversamenti: prima l’interessamento al versante psichiatrico, poi alla salute della donna; il lavoro grande, di cui ho nostalgia, nei consultori familiari: vicino a temi di salute fisica, ma interconnessi alla vicende relazionale delle persona. Tutti questi visti solo nell’aspetto scientifico dell’arte medica non hanno risposte efficaci per le storie delle persone; l’essere umano è un essere di relazione costruito da questo anche nei determinanti della sua salute. Fare il medico diventava un fatto sociale e occuparsi del sociale diventava occuparsi della politica.
La politica è sociale. Noi abbiamo questo ossimoro, ma le politiche sociali sono le politiche. La città è vissuta per tutti gli aspetti, strutturali, urbanistici, economici, che sono aspetti sociali. La mia fatica attualmente è questa: far comprendere che tutte le politiche hanno riflesso nella vita quotidiana delle persone e posso influire sull’aumento del proprio capitale sociale.
Per me c’è un filo rosso che collega ogni aspetto delle cose su cui mi impegno e questo filo rosso riguarda anche il modo di vivere le mie relazioni parentali e amicali; c’è sempre un pensiero di fondo che collega il senso che sto ancora cercando, ma che un pochettino credo di aver raggiunto.
La politica per me vuol dire occuparsi delle persone e trovare risposte ai loro bisogni.

Dovrebbero esserci più donne in politica?

Sì, senza degenerare nel maternagè, però sì, per una sensibilità più attenta alla relazionalità, perché dovendoci occupare di persone fragili, piccole o anziane, del corpo delle persone, collegata con la materialità della presenza dell’altro, ad esempio la lettura del pianto del neonato, si sviluppano delle qualità oggi importantissime. Queste servono per capire il contesto comunitario, per governare il territorio: le competenze femminili sono importanti. Potremmo imparare molto da quello che hanno fatto gli uomini: hanno esercitato il distacco, la regola e ciò è utile per leggere le situazioni, mentre noi donne non riusciamo a volte a fare questa operazione, ma potremmo insegnare molte cose che a forza di essere distaccati e attenti alle regole portano a perdere di vista i bisogni veri.
Un bilancio di questi mesi di assessorato.
Ogni giorno mi trovo con nuove necessità e problemi, la situazione è davvero fluida e dinamica su tanti aspetti di cui mi occupo. Si va facendo più chiarezza su alcune necessità di intervento e sui piccoli step raggiunti di cui sono contenta. Nel mare delle necessità che avanzano c’è una consapevolezza che essere qui non è senza senso né senza risultati. In termini personali sono contenta di essere qua, consapevole del tanto lavoro da fare e dei tanti limiti operativi.
Poi c’è il bilancio più operativo, più di ritorno del programma che si cerca di portare come rappresentanza dei cittadini. Questo primo anno è stato una anno di impostazione della vulnerabilità socio-economica; siamo a buon punto rispetto ad una serie di proposte ed intervento sull’inserimento lavorativo; sul raccordo tra realtà che si occupano di fragilità all’interno delle famiglie; su aspetti delle fragilità più gravi, come ad esempio l’unità di strada, i centri diurni.
Sul settore della fragilità della città si sta lavorando tanto: ho un elenco enorme, su questo si sta investendo, anche, ad esempio, sulla messa in rete dei servizi.
Le risorse economiche sono in crisi, occorre a chi amministra essere capace di riconoscere le priorità chiedendo alleanza ai cittadini, non togliendo le responsabilità di vari attori che operano in queste associazioni.
La risposta alla fragilità della dimensione relazionale non può essere calata dall’altro: bisogna lavorare insieme.
Stiamo innovando e crescendo in relazione alle politiche famigliari e agli anziani come sostegno alla rete relazionale.
Inoltre, vi è l’implementazione del processo in cui l’operato delle circoscrizioni si intreccia con i servizi sociali, lavorando con la specificità territoriale: è un vero impegno sociale di comunità che vede alleati i poli sociali, la rappresentanza delle circoscrizioni, le associazione e le singole famiglie. Tutto questo permette molta partecipazione: è nella concretezza della quotidianità che si crea la realtà partecipativa.

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