Qualche tempo fa ho incontrato per caso nel centro di Trento Janet, una ragazza paraplegica di nazionalità americana. Subito mi ha sorpreso per la solarità del carattere e la dinamicità del modo di fare nonostante la carrozzina e così mi è sembrato interessante avvicinarla per conoscere la sua storia e realizzare uno scambio d’informazioni sulle rispettive esperienze di vita, lei come americana, io come italiano.
L’incontro e la chiacchierata sono stati possibili grazie all’aiuto di una ragazza che considerate le reciproche difficoltà linguistiche, ha fatto da interprete.
Inizio prendendola alla larga: “Janet, vuoi presentarti?“
Risponde subito con un sorriso: “Ho 25 anni e vengo dall’America. Studiavo e lavoravo come lift operator, aiutando le persone che si facevano male sciando in montagna. Quattro anni fa, a seguito di un incidente stradale, mi sono ritrovata su una sedia a rotelle”.
Qualche altra domanda e poi entro nel vivo: “Nel tuo ambiente, dopo l’incidente, cosa è cambiato nei tuoi confronti?“
Pronta la risposta: “Ho trovato persone disponibili che mi hanno aiutata anche con terapie fisiche ed occupazionali. L’unico lato negativo di tutta la vicenda è stata la fretta con cui mi hanno dimesso dall’ospedale. La mia famiglia mi è stata vicina ma io ho sentito presto l’esigenza, come è nella nostra cultura, di andare a vivere per conto mio, anche se con le difficoltà oggettive che comporta la vita da disabile”.
Le chiedo come sia affrontato nel suo paese il problema della disabilità: “Qual è in America la situazione in tema di diritti e di tutela della persona disabile?“
Risponde con sicurezza: “Per quanto riguarda le barriere architettoniche ci sono difficoltà ad accedere in edifici datati e ad adeguarli. Per i nuovi esiste una normativa molto rigida per costruirli già accessibili”.
Dalle barriere architettoniche passo quelle mentali: “Cosa puoi dirmi del mondo della scuola e del lavoro?“
Ancora una volta risponde senza esitazioni: “In America vi sono anche scuole differenziate ma solo per chi vuole frequentarle. Nell’assoluta maggioranza dei casi però i disabili fisici sono integrati in quelle normali dove vengono supportati dagli altri studenti che aiutano soprattutto i più gravi, lavorando assieme. Per quanto riguarda il lavoro, devo dire che non ci sono grossi problemi di inserimento perché le leggi tutelano la persona chiunque essa sia. Infatti per me è stato facile trovarlo.”
La chiacchierata si è fatta confidenziale e così trovo l’impudenza di chiedere cosa mai possa aspettarsi una ragazza come lei dal nostro paese: “Quali sono le tue aspettative qui in Italia?“
Mi dà l’unica risposta che non accompagna con il suo spigliato sorriso: “Purtroppo sono priva di cittadinanza italiana perché sono a Trento soltanto da alcuni mesi. Sono arrivata qui seguendo il mio ragazzo italiano che in America era il mio istruttore negli sport per disabili. Infatti praticavo sci, nuoto e una variante del rock-climbing che consiste nello scendere la montagna sia con la carrozzina che senza. Ora frequento il Centro di Riabilitazione “Franca Martini” e lavoro come volontaria: ho un diploma americano di “Recreation therapy” e il mio sogno nel cassetto è quello di portare anche qui in Italia questa metodologia occupazionale. Consiste nel coinvolgere i pazienti, affetti da paralisi alle braccia o alle gambe, in modo da farli lavorare in modo divertente, come ad esempio con l’agroterapia, senza che si rendano conto del fatto di essere in terapia.”
Saltando da palo in frasca continuiamo a scambiarci opinioni, esperienze, propositi e speranze ma Janet conserva sempre quel modo positivo e concreto così tipico degli americani di pensare e guardare in avanti. Dopo un paio di orette la chiacchierata si avvia alla fine. Le chiedo: “Hai un tuo pensiero simpatico da comunicare ai nostri lettori?“
Replica: “Sì, qui tutto è così piccolo: dal frigorifero ai marciapiedi, alle luci sulle strade… ma a parte questo aspetto mi attira la vostra storia: tutte le figure, le immagini che ho visto nei libri qui prendono vita perché si traducono in storia. Allora capisco perché il turismo italiano sia così vivo.”