Arrivare in aereo a Kathmandu in una notte senza luna dà l’impressione di atterrare nel vuoto dello spazio. La città è sommersa nel buio, solo poche luci sparse non bastano a distinguere l’orizzonte dal cielo stellato.
Ripartire in aereo da Kathmandu in una notte di metà novembre in coincidenza con il Tihar, conosciuto in Occidente come Festival delle Luci, dà l’impressione di decollare sopra una città incantata, simile a certi notturni impressionisti fatti di migliaia di piccolissimi puntini colorati.
Sono trascorsi solo dieci giorni tra l’arrivo e la partenza dal Nepal, eppure tutto quello che è accaduto in questo lasso di tempo sembra poter essere riassunto in queste due immagini contrapposte: l’impressionante buio e la valle delle luci colorate, che coesistono in uno stesso posto e in uno stesso tempo. Il Nepal è un luogo di coesistenza: di buio profondo e luce abbacinante, di miseria materiale e ricchezza umana, di induismo e buddismo, di cemento rovinato e vegetazione rigogliosa, di smartphone e templi antichi, di sottomissione e coraggio. In altre parti della Terra queste sarebbero contraddizioni, l’una ruberebbe il posto all’altra. Quassù, sul tetto del mondo, sembrano riuscire a convivere nello sguardo tranquillo e pulito delle persone, nel ritmo implicito delle faccende quotidiane, nell’ordine nascosto che scandisce gli spasmi del caos cittadino.
Una simile capacità di convivenza fra estremi non è cresciuta al riparo da minacce interne ed esterne. Nonostante una storia e una cultura millenarie, il Nepal non è stato in passato sufficientemente forte da contrastare le spinte espansionistiche delle due giganti confinanti Cina e India, e lo è ancora meno oggi. Il travagliato passaggio dalla rigida monarchia ad una repubblica più rappresentativa delle oltre cento minoranze etniche, proclamata solo nel 2008, ha indebolito ulteriormente le fondamenta di uno stato poco coeso, che è sembrato crollare su sé stesso il 25 aprile scorso a causa del violento terremoto che ha improvvisamente spezzato la vita di 8857 persone, ferendone più di ventimila e lasciandone quattrocentocinquantamila sotto le piogge monsoniche a contemplare le macerie rimaste di una vita di sacrifici.
Numeri, dietro ai quali si nascondono con grande dignità volti e storie. Lo scopo del viaggio in Nepal è quello di ascoltare alcune di queste storie, in particolare quelle di gruppi di donne che, già prima del sisma, dovevano lottare ogni giorno per il diritto di affrontare la vita a testa alta. Un diritto a lungo negato, perché queste donne sono vedove. Un’organizzazione nepalese chiamata Women for Human Rights, a Kathmandu e in altre parti del Paese, le rappresenta. A creare, nel 1994, questa associazione, fu una giovane vedova di nome Lily Thapa. L’appellativo “vedova”, però, a lei non piacerebbe: è una delle grandi conquiste di Women For Human Rights quella di aver emanato una petizione a livello nazionale che sostituisca il termine vedova – bidhwa in nepalese – con il meno emarginante single woman, donna sola. In Nepal il destino riservato alle vedove, spesso giovanissime e madri di tre, quattro o cinque figli, è difficile. Una società di forte stampo patriarcale che, in particolare nelle zone rurali, fatica ad accettare cambiamenti, impone alle donne rimaste sole di condurre una vita da vere e proprie emarginate: perdono il diritto di lavorare e di conseguenza di provvedere ai bisogni della loro famiglia, diventano vittime di abusi verbali e violenze sessuali. Vengono isolate dal resto della comunità con il loro status marchiato a vita dall’obbligo di indossare il lutto bianco, secondo la tradizione induista. Il livello di analfabetismo tra le vedove che fanno parte dei gruppi locali è altissimo: quasi l’ottanta per cento di loro sa scrivere soltanto il proprio nome. Una volta rimaste sole, inoltre, perdono ogni diritto sulle proprietà del marito, e ciò impedisce loro di poter richiedere prestiti. Non possono tornare alle loro famiglie d’origine: una volta date in spose, i genitori perdono ogni diritto di interferire nella vita delle loro figlie. Molte di loro, esasperate da questa situazione, decidono di allontanarsi dai villaggi in cui sono nate e cresciute. Oggi, dopo vent’anni di attività, Women for Human Rights viene convocata durante le consultazioni dell’ONU in materia di diritti di genere. Raggruppa più di centomila donne nepalesi, riunite in millecinquecento comunità sparse in settantatré distretti che coprono tutto il territorio nazionale. All’interno dei gruppi, che in genere si incontrano in una piccola sede ai margini dei villaggi, vengono portate avanti attività di vario tipo: da percorsi di supporto psicologico a consulenze in tema di diritto di proprietà, da corsi di formazione professionale a incontri sui temi dell’igiene e della cura dei bambini. In molti casi, i gruppi locali fungono anche da creatori di micro-credito: in queste banche le donne possono depositare piccole somme di denaro e a loro volta ottenere prestiti per l’avvio di attività imprenditoriali i cui benefici ricadono poi sulla comunità. Alcune di loro decidono invece, non senza sacrifici, di investire a lungo termine sull’educazione dei figli. E si rivela una scelta vincente. Incontriamo i membri del consiglio nella sede centrale dell’associazione a Kathmandu, un edificio a più piani a Baluwatar, a nord-est del palazzo reale, dove già dal primo mattino fervono le attività giornaliere. Prendiamo posto a gambe incrociate sui cuscini ricamati sparsi in una stanza luminosa del secondo piano. La luce del mattino che entra dalle grandi finestre illumina i volti di alcune signore che ci accolgono con sorrisi tranquilli. A parlare è Nirmala Dhungana, nuova presidentessa dell’associazione alla quale Lily ha lasciato le redini poco tempo fa. Come Lily, anche Nirmala è una professoressa universitaria. Si occupa di cultura e di studi di genere. Vuole mostrarci una presentazione che ha preparato, ma il proiettore non funziona neppure dopo vari tentativi da parte di tutte le presenti. Nirmala ridendo ammette: “In effetti a volte, tecnicamente, siamo donne sole!”. Ci spiega che Women For Human Rights è una delle pochissime organizzazioni esistenti nell’Asia del Sud ad occuparsi di diritti delle donne. Assicura che, dopo vent’anni di lotta contro la discriminazione delle donne nepalesi, l’operato dell’associazione è ancora una goccia nell’oceano. Non è solo modestia: il Nepal è ancora in larga parte una civiltà rurale dove l’alfabetizzazione e l’educazione a valori più paritari devono affrontare ben più dei sentieri sconnessi di montagna, uniche vie d’accesso ai villaggi più isolati. In questi luoghi gli sforzi dell’associazione si scontrano giorno dopo giorno con una mentalità che attribuisce al solo uomo il potere di decidere le sorti dell’intera famiglia, e in particolare della donna. E neppure le recenti leggi statali di tutela dei diritti della donna riescono a scalfire i ben più resistenti dettami della tradizione. Tuttavia, i risultati dell’incessante lavoro di queste donne ci sono stati. L’impressione che traggo è che il modello strutturale di questa organizzazione sia riuscito a diffondersi in modo così capillare sul territorio perché di fatto ricalca uno schema già di per sé esistente nella cultura nepalese, come in quella di altre realtà simili nel mondo: lo spirito di collettività e mutuo aiuto femminile che l’Occidente sempre più individualista ha ormai dimenticato. Le donne nepalesi non sono sole, né i figli crescono isolati dentro le recinzioni delle loro case. Esiste a queste latitudini un senso di comunità che costituisce un’arma molto potente, e Women For Human Rights altro non fa che incoraggiare e rafforzare questa rete di legami, adibendola a bacino di sviluppo sociale e culturale. Oltre ai servizi di consulenza e all’istituzione di sistemi di micro-credito, l’associazione nepalese sta lavorando anche su altri progetti, e in questo si avvale dell’aiuto di organizzazioni estere che periodicamente inviano fondi e altre risorse. Il più recente ha riguardato la risposta all’emergenza terremoto. I fondi raccolti sono stati usati per acquistare lamiere per la costruzione di rifugi temporanei e il necessario per la preparazione dei Dignity Kit, destinati alle donne sfollate contenenti il necessario per l’igiene intima femminile in condizioni di promiscuità. Un altro progetto che sta avendo successo è l’Opportunity Fund, un sistema di borse di studio per le donne sole e i loro figli. Al momento l’Opportunity Fund sostiene il percorso educativo di duecento ragazzi e cinquanta donne. Parte dei fondi è destinato anche alla costruzione di un nuovo Chhahari a Chapali, un’area nevralgica nella zona nord di Kathamandu. Chhahari, in nepalese, significa “ombra di albero”. Si usa questo nome per indicare un luogo di ristoro e protezione lungo gli impervi sentieri di montagna, e proprio questa parola è stata scelta per riferirsi ai centri di prima accoglienza che Women For Human Rights gestisce sul territorio. Il nuovo Chhahari di Kathmandu non esiste ancora: l’iter progettuale è stato rallentato notevolmente dal terremoto, e per ora c’è solo un terreno. Qui, dove fino a poco tempo fa erano piantate le tende che ospitavano gli sfollati del terremoto, sorgerà una struttura di quattro piani finanziata dall’Ambasciata di Calcutta. Al suo interno verranno allestite stanze per le ospiti e i nuovi uffici centrali dell’associazione. Lo spazio verde esterno ospiterà un orto biologico simile a quelli che già occupano i terreni confinanti. Prima di pranzo partiamo per Dharmasthali, un villaggio in collina nella zona più duramente colpita dal terremoto nel distretto di Kathmandu. Allontanarci anche se di poco dallo smog che in città offusca anche l’orizzonte più vicino è un sollievo, e mano a mano che la vista diventa più nitida il contatto con ciò che ci circonda acquista tridimensionalità. La jeep si ferma al termine di una salita fra le risaie su uno spiazzo ombreggiato da due enormi alberi che, con la loro ombra nel sole di mezzogiorno, sembrano rappresentare alla perfezione l’idea stessa di Chhahari. Un capannello di donne di ogni età dai vestiti cangianti affolla lo spazio intorno alla macchina mentre scendiamo. Tengono in mano collane di tagete arancioni, i fiori tipici del Nepal, e ciotole di tika, la polvere rossa che posano con dita gentili sulle nostre fronti per darci il benvenuto. A fare da sfondo una semplice costruzione in cemento color verde smeraldo che sorge su un terreno concesso in comodato d’uso dal governo. Veniamo invitati all’interno, dove ci sediamo in cerchio, le nostre ginocchia che sfiorano le vesti colorate di quante hanno preso parte alla riunione. Ascoltiamo alcune delle loro storie. Una donna dallo sguardo profondo prende la parola: aveva diciott’anni quando ha perso il marito, e con esso il supporto della famiglia d’adozione. Con enormi difficoltà ha deciso di investire sull’educazione dei due figli. Ora ha cinquantatré anni, e con i soldi inviatigli dal figlio che lavora a Dubai dopo il terremoto ha potuto acquistare otto lamiere per costruire un rifugio. Ci spiega che entrare a far parte di un’organizzazione che tuteli la sua condizione ha dato una svolta alla sua vita: le ha consentito di mettere finalmente da parte la vergogna associata al suo status di vedova, e le ha insegnato che piangere non è l’unica opzione. Vive sotto un tetto di lamiera di pochi metri quadri di fianco alle macerie della sua casa, ma ci guarda fiera e commenta che i tempi duri sono finiti: per queste donne la conquista di una vita è il futuro dei figli. Un’altra signora seduta vicino alla porta si presenta: “Mi chiamo Batisha Maharjan”. Il marito l’ha lasciata quando aveva ventisette anni dopo la nascita della terza figlia femmina. Nella famiglia d’adozione veniva ricoperta di insulti e costretta al digiuno, l’istruzione alle figlie negata: “Nessuna educazione per le donne in questa casa”. Oggi le figlie, laureate, vivono fra Australia e Giappone. C’è in tutte coloro che raccontano un’insolita, profonda dignità, un ritegno nel parlare della tragedia che le rende in qualche modo eleganti. Non c’è traccia di rabbia, né di frustrazione, né di disperazione nelle loro voci. Loro, le ultime degli ultimi, raccontano, tenendo il capo ben dritto, si soffermano sui dettagli positivi, e alla fine della loro storia sorridono unendo le mani in un gesto di ringraziamento per averle ascoltate. Con le stesse mani logorate dal lavoro nei campi ci servono il dal bat, il piatto tradizionale nepalese composto di zuppa di lenticchie, riso basmati e verdure cotte al curry. Nei villaggi, rispetto a quello che mangiamo a Kathmandu, ha un sapore molto più pieno. Dopo il pasto veniamo invitati a vedere alcuni dei rifugi temporanei nei quali le famiglie locali vivono dopo il terremoto. Ogni struttura, in lamierino piegato a formare una volta, sorge di fianco ad una casa parzialmente o totalmente crollata, e ospita fino a sei o sette persone in una decina di metri quadri. Non c’è isolamento dal suolo, qualche vecchio sacco di nylon separa la terra dalle coperte dove le famiglie dormono. Un angolo ospita in genere un focolare o un piccolo fornelletto a gas; gli abiti sono appesi a corde tese al centro delle strutture. Durante il giorno questi spazi angusti, umidi e fumosi sono vuoti: i bambini giocano all’esterno, in chiassosi gruppetti colorati, e gli adulti sono al lavoro nei campi. Solo qualche anziano, accovacciato davanti alle porte scrostate delle baracche, sparge il riso in larghe ceste di paglia finemente intrecciata. Viene spontaneo chiedersi come faranno, queste persone, ad affrontare l’inverno incombente protette solo da una lamiera spessa qualche millimetro. Ma di nuovo, nessuno ne parla. Tutti sorridono al nostro passaggio, e restituiscono divertiti i nostri sguardi incuriositi. Lasciamo il villaggio mentre gruppi di bambini in divisa scolastica risalgono il pendio e si fermano a giocare nei pressi dell’altalena appesa ad uno dei due grandi alberi di fronte al Chhahari. Il mattino seguente, sulla strada per Macchyagaun, ci fermiamo in una tendopoli alla periferia di Kathmandu chiamata Chuchhepati. Diverse associazioni umanitarie hanno contribuito alla sua costruzione dopo il terremoto. A farmi da guida in questo labirinto di nylon è Rohan, navigato cicerone di otto anni con la faccia da teppistello buono. Agguanta la mia mano e, scortati da una combriccola di ragazzini chiacchieroni, quasi fosse un gioco, partiamo alla scoperta di questa città in miniatura in cui famiglie di sfollati provenienti da un gran numero di villaggi circostanti convivono da più di cinque mesi. Spiamo di nascosto dentro a una tenda in cui una giovane ragazza sta insegnando a contare in inglese ad un gruppetto di donne. Qualcuna si accorge di noi, dà una gomitata alla vicina, e poi ritornano a fissare la lavagna e a ripetere in coro i numeri. I ragazzini mi portano a vedere un’enorme tanica d’acqua potabile e l’area delle latrine. Afferrano le mie dita e le fanno scorrere sotto i nomi stampati delle organizzazioni umanitarie. Li conoscono tutti a memoria, e insistono perché li annoti sul mio blocchetto. Mi trascinano a vedere le loro tende, a conoscere le loro famiglie. Mi spingono dentro le baracche senza preavviso, e mi sento un po’ colpevole a piombare così in casa d’altri. Ma trovo ad accogliermi sorrisi e risate, e alla fine rido anche io. Altre visi, altre storie, altre donne ci aspettano a Macchyagaun. Di nuovo le donne del luogo ci accolgo per pranzo, di nuovo ci servono del gustoso dal bat. Altre corone vengono poste sui nostri petti, altra polvere rossa si posa sulle nostre fronti. Il gruppo di Macchyagaun è nato cinque anni fa, e raccoglie oggi ottantadue donne sole. Molte di loro sono rimaste vedove durante il conflitto civile che per dieci anni, dal 1996 al 2006, ha sconvolto il Nepal nel duro passaggio dalla monarchia all’istituzione della repubblica federale che oggi, non senza contraddizioni, ordina lo Stato. Dopo il terremoto, quarantadue di queste donne sono rimaste senza casa, e vivono adesso nei rifugi temporanei. Nel momento della nostra visita è stato appena completato il centro per la cura dei bambini, una stanza al pianterreno dell’edificio in cui ci troviamo che è stata decorata come l’aula di un asilo. Servirà nei prossimi mesi ad accogliere, durante le ore centrali della giornata, i figli delle donne che partecipano al programma di micro-imprenditorialità femminile. Dal giorno del terremoto il gruppo si è notevolmente ingrandito: ventidue donne coinvolte nella gestione dell’emergenza hanno poi deciso di divenire membri dell’associazione. Insieme affrontano vari tipi di problemi. L’organizzazione di corsi per difendersi dagli abusi che le donne subiscono nelle famiglie allargate stipate negli angusti spazi delle baraccopoli; questioni di diritto di proprietà; sforzi per ottenere dal governo qualcosa di più delle quindicimila rupie (poco più di 130 euro, una tantum) destinate alla ricostruzione ma impiegate invece dalla stragrande maggioranza delle famiglie per l’acquisto di cibo e per il pagamento delle rette scolastiche, dovute proprio nel mese successivo al sisma. Una donna del gruppo nota che, proprio nel rapportasi con le istituzioni, l’unione sembra fare la forza: presentarsi negli uffici governativi in gruppo anziché da sole dà loro più possibilità di essere ascoltate, e alle loro richieste di essere prese in considerazione. Ci trasferiamo per qualche giorno a Gorkha, un distretto a circa cinque ore di macchina ad ovest di Kathmandu. Lo stile di guida a dir poco sportivo del nostro autista ci impedisce solo in parte di osservare affascinati le colline di risaie immerse nella nebbia umida della foresta, e l’ordine rigoroso dell’architettura dei terrazzamenti rappresenta un contrasto notevole rispetto al caos cittadino che ci stiamo lasciando alle spalle. Gorkha giace colorata sul crinale di una ripida montagna terrazzata. Numerose aquile sorvolano l’abitato descrivendo lentamente nel cielo pallido ampi cerchi. Sull’uscio della sede locale di Women For Human Rights giacciono abbandonati decine di sandali, a cui si aggiungono le nostre scarpe quando entriamo per partecipare alla riunione organizzata in occasione del nostro arrivo. Essendo prossimo all’epicentro, quello di Gorkha è stato il distretto maggiormente colpito dal terremoto. Nei giorni successivi al sisma un’ondata di sfollati provenienti dai villaggi circostanti si è riversata in città in cerca di rifugio. Otto mesi dopo, la priorità delle donne riunite qui oggi è quella di poter tornare da dove sono venute. Anelano alla libertà, ma è per loro una libertà legata innanzitutto al ritorno: alle loro case, ai terreni coltivati adesso abbandonati, ai legami che il sisma ha spezzato. L’ultimo giorno nel distretto di Gorkha una jeep ci accompagna a Choprakh. L’epicentro del terremoto si è trovato esattamente sotto a questo piccolo villaggio nel quale ora il novanta per cento delle abitazioni risulta inagibile. Condividiamo il saltellante viaggio in jeep con un avvocato venuto da Kathmandu per parlare alle donne locali dei diritti che le nuove leggi statali garantiscono loro. Le donne, per la prima volta, hanno lasciato il lavoro nei campi e siedono, ascoltando attente, dentro l’unica aula scolastica rimasta agibile dopo il sisma. Alcuni uomini del villaggio, ubriachi, provano a entrare e infastidire chi ha preso parte alla riunione con risate e prese in giro. Anche una bambina fa capolino da una finestra, concentrata sulle parole dell’avvocato. Torniamo verso Kathmandu lasciandoci alle spalle una nube di polvere gialla, che annebbia anche i pensieri. Al momento dell’arrivo, il Nepal sembrava un’infinita distesa buia. Lo lascio nella notte del Festival delle Luci, e dall’alto le città sembrano un lago di lanterne e candele colorate. Quali fili uniscano ciascuna di quelle luci, quali logiche ne regolino le distanze e le vicinanze, è difficile capirlo e ancor più difficile dirlo. Ma riesco ora a immaginare, nel chiarore fioco tra le candele, piedi femminili che ballano, e leggere gonne colorate che si agitano nell’aria della sera.