La cura dell’altro

Data: 01/04/20

Rivista: aprile 2020

Categoria:Disagio e inclusione,Interviste

Qualche settimana fa Gianko Nardelli è passato a trovarci in redazione. Ci ha raccontato apertamente la sua storia e regalato qualche ora di armonia, positività, insegnamenti su come guardare alla vita. Se parliamo di cura dell’altro, Gianko è un mirabile esempio. 

Gianko, presentati. 

Mi presento, più che come artista, come uomo che ha maturato delle esperienze, anche all’interno della disabilità. In maniera forse anche inconsapevole, ma da cui ho tratto tanti insegnamenti. Da 45 anni sono nel mondo artistico trentino. Già da bambino avevo nel DNA la passione per la canzone, il varietà, l’animazione, l’allegria, lo stare in comunità. Sono molto più social che family. Tutta questa potenzialità – dilettantesca – mi ha portato a proporre i miei sketch, con la collaborazione di validi musicisti, in occasione di feste campestri, matrimoni, compleanni, feste di associazioni, e da metà anni ‘80 nelle RSA, portando una ventata di allegria e animazione agli ospiti. Qui è iniziato un cammino dove l’aspetto artistico è stato la chiave d’accesso al microcosmo della disabilità. Ambito che mi ha fatto scoprire delle cose estremamente importanti e ha mutato la mia prospettiva. Prima ero io, come artista, al centro dell’attenzione; poi nel ‘98 la fisioterapista di una RSA ci lancia una provocazione: nel vostro abbigliamento manca un po’ di colore. Una frase che è come un seme gettato in un campo. Mi ha creato fastidio e inquietudine, ma è stato un seme che poi ha dato frutto. In quell’occasione, ricordo, il pubblico era formato da anziani con diverse patologie, tra cui la demenza senile. Ci ho pensato e ripensato. Mi sono chiesto “cosa possiamo fare per? Non siamo qui per noi, ma per chi ci guarda e ci ascolta, in una modalità di servizio”. Da allora ho cominciato a studiare le possibilità: a sostituire le giacche con camicie più sgargianti e abiti più accattivanti, elementi che fossero già un messaggio di benvenuto. Questo ha influito sul repertorio. Anche qui due scuole di pensiero: il mio collega musicista più tradizionalista, io più discolo, monello, “fantasista”. E la fantasia, la creatività, significa anche cavalcare il momento, adattarsi la situazione, proporre un programma non statico, ma dinamico. Si coinvolge in base al pubblico, all’atmosfera, all’ambiente. Questa un po’ la nostra missione. L’importante è che il momento sia inclusivo.

Artisticamente ti definisci fantasista. Cosa vuol dire?

È un grande contenitore. Non sei ingessato nella parte dell’attore, del cabarettista, hai la possibilità di volare da una canzone ad una poesia, da un gioco ad uno sketch, per creare animazione e un clima di armonia, in maniera leggera e coinvolgente. 

Dicevi che da bambini e diversamente abili hai imparato molto. 

Assolutamente sì. I bambini hanno due caratteristiche essenziali: la semplicità e il potere della meraviglia, dello stupore, della scoperta. Sono insegnanti carini, simpatici, belli, ma spietati. Sono genuini, non hanno i filtri e le barriere di noi adulti. Se hai il naso lungo o non gli stai simpatico, te lo dicono. Non hanno bisogno dell’animatore per giocare, anche se questo serve per organizzare: i bambini sono buoni anarchici. Hanno bisogno di regole. La regola è fondamentale, è qualcosa che ti protegge, che ti permette di fare un percorso sicuro. Con i disabili? Quando vado a Nuova Casa Serena dico che “vado fra gli angeli”. Devo andare con le pantofole, andare pian pianino con il ritmo, con la musica… A loro basta poco per agitarsi, emozionarsi, entusiasmarsi. È un mondo parallelo, come le carceri e altri luoghi speciali. È una questione di vibrazioni: deve essere una cosa assolutamente rispettosa. È una frequenza diversa, devo esserne consapevole. È tutto “disorganizzato”; devo farlo fra loro. Non è solo “guardatemi”, è un abbraccio grande. Una platea abbracciosa. Questo permette di creare questi momenti soft. Con le loro condizioni, non con le mie. Sono io a dovermi inserire nel loro contesto, non il contrario. Devo essere molto fluido e flessibile.

Il tuo motto è “buona vita!”

È quello che ha suggellato il mio cambio di prospettiva. Dovevo concretizzarlo non solo a livello ideologico o di sensazione, ma in qualcosa che fosse visibile e percettibile. Quando faccio lo spettacolo, nel mio leggio non c’è più il banner “Gianko Show”. Dovevo fare il salto di qualità, non tanto artisticamente, quanto umanamente. “Buona vita!” non è un’invenzione mia, ma un saluto regalatomi da mio cognato anni fa e che ho fatto mio. La buona vita c’è da augurarla a tutti, dal bambino ancora in grembo all’anziano sul letto d’ospedale che sta salutando la vita terrena. In questo motto c’è dentro tutto: tutte le età, tutti i Paesi. È un saluto per me universale. Un augurio, una benedizione. Benedizione vuol dire “dire bene”, quindi io ti auguro “buona vita!”

C’è qualcos’altro che ti preme aggiungere?

Il fatto di aver focalizzato finalmente un’immagine che prima non mi apparteneva. Il fatto che l’altro è un mistero; normodotato o diversamente abile, è comunque una persona da esplorare. Con creatività e curiosità. Capire chi ho davanti: sì, è vestito in questa maniera, ha questo aspetto, ma cosa c’è dietro questo corpo umano, che anima, che esperienze? C’è quindi anche un discorso di approccio empatico, senza farsene troppo carico, ma abbandonando pregiudizio e giudizio, avendo tutta la prudenza possibile e la curiosità di capire in maniera nobile e pura chi ho davanti. Ecco che le diversità, le differenze, che prima erano un limite, adesso sono un punto di partenza. E questo ti arricchisce l’animo e la mente. Sono sempre percorsi vantaggiosi, in termini economici e soprattutto di crescita, di acquisizione di conoscenze, esperienze, contatti. Questo ti libera da un sacco di fardelli e ti arricchisce. La cosa bella di bambini, diversamente abili, anziani, è che ti fanno capire molti limiti che abbiamo, e che ho personalmente, e tante possibilità di miglioramento. Ti fanno rialzare la vita. Ecco la buona vita. Il fatto di camminare, vedere, toccare, sentire, gustare, apprezzare. Se guardi in giro, c’è molta gente che non sorride, che ha tutto magari, ma gli manca la cosa più preziosa che ci è stata donata. Perché noi siamo un dono per l’altro. 

Grazie mille e buona vita!

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