La famiglia non deve essere d’ostacolo

Data: 01/12/00

Rivista: dicembre 2000

Abbiamo parlato nel numero scorso delle barriere, cioè degli ostacoli “esterni” che un handicappato motorio si trova ad affrontare quotidianamente nella sua vita.

La minorazione peraltro esercita i suoi effetti più diretti sul piano personale di un tale soggetto, in primis influenzandone identità (il chi è lui) e affettività (capacità di dare e ricevere affetto in senso lato).

Non è però così facile definire e descrivere gli effetti della minorazione su queste due dimensioni poiché sono molti i fattori in gioco.

Nel caso di disabili in generale, il comportamento dell’individuo, le sue reazioni, la capacità di percepirsi correttamente tra gli altri dipendono, più che dallo stato particolare del suo organismo, da un’insieme di variabili, tra cui il temperamento, la presenza di disturbi associativi, l’atteggiamento della famiglia, le relazioni sociali, lo status, le forme di reattività che egli è in grado di mettere in atto e le occasioni di successo o i fallimenti.

Così, i tentativi di caratterizzazione generale risultano di solito fuori luogo poiché le differenze individuali spesso rilevanti aggiungono sfumature al quadro generale che si credeva di poter ricavare e perfino lo contraddicono.

La famiglia può essere considerata la fonte principale degli handicap.

Le reazioni di rigetto più o meno mascherate, quelle dovute al senso di colpa dei famigliari, l’iperprotettività che spesso ne deriva, la negazione del deficit e delle sue conseguenze sono elementi importanti che spesso hanno costituito oggetto di ricerca.

In proposito la Palazzini, già citata nel numero scorso a proposito di barriere, nota che, se alla società è addebitabile gran parte della responsabilità per la mancata partecipazione dei “diversi” al mondo della vita quotidiana, ai genitori e in generale ai familiari ne va addebitata altrettanta perché spesso, specie fin qualche decennio fa, tenevano l’handicappato segregato in casa aggiungendo al handicap fisico o mentale, uno sociale di mancata compartecipazione alla comunità.

A questo proposito si usa parlare di “inferiorità” dei disabili.

La nozione di senso o complesso di inferiorità, è spesso invocata “a priori” per giustificarne l’inadeguatezza delle prestazioni o la totale dipendenza da altri.

Molti disabili reagiscono a questa scarsa considerazione ricorrendo a meccanismi di compensazione, frequentemente osservabili sia che si manifestino attraverso la ricerca di un successo effettivo tale da annullare il senso di inferiorità esistente (handicappati che inseguono con grande determinazione lauree, specializzazioni professionali, fanno i presenzialisti…) sia che si determinino su un piano immaginario o verbale (manie di protagonismo, confusione tra piano reale e fantastico).

Raramente però queste compensazioni diventano una molla tanto potente da dare un senso di normalità ad un disabile, ad orientarne le azioni e trasformarne la vita stessa.

Essa perlopiù si esercita su piccoli successi che non investono la globalità dell’esistenza.

Certo ci sono le eccezioni, pensiamo a Frank Williams protagonista della Formula 1 ma si tratta di eccezioni vistose: ben di più sono i disabili autoreclusi in casa, quelli che cadono in depressioni gravi e perfino i suicidi.

Gli handicappati spesso accusano i “normali” di essere la causa delle loro difficoltà, assumono un tono di recriminazione contro l’esibizione di salute degli altri, trovano sempre qualcosa di cui lagnarsi quando entrano in contatto con qualcuno che li assiste o comunque sta loro vicino e li aiuta.

Il problema è che l’approccio da parte del “normale” non avviene, se non in rari casi, senza pregiudizi, atteggiamenti di superiorità, prevenzione, non coinvolgimento, come abbiamo descritto nella prima parte di questo articolo pubblicato sul numero precedente.

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