L’Italia è il paese delle emergenze, sembra quasi che questa debba essere l’unica modalità per lo Stato e la società di occuparsi dei suoi problemi.
Temi molto delicati trattati spesso con grande superficialità, problemi tecnici affrontati da un punto di vista ideologico, gravi carenze e disfunzioni denunciate oppure omesse soltanto a scopi politici elettorali. Tante parole dette e scritte sul tema della giustizia, usando la popolazione carceraria per acquistare e/o non perdere consenso strumentale su temi che da sempre sono retaggio – almeno dovrebbero esserlo – di solidarietà sociale.
Si consideri l’exploit estivo dell’amnistia ed indulto.
Un autentico colpo di sole giocato sulle aspettative della popolazione detenuta, il loro familiari, trattati come numeri, carne umana, quasi ad emulare l’America con le sue attese, da last minute, fino al cappio, come nei western, sempre verificate dalla grazia mancata.
Mi perdoni il lettore per le quasi forzate provocazioni, è un prezzo da pagare alla via della consapevolezza dei fatti.
Chiediamoci allora senza aprire le carceri perché la certezza della pena è una delle garanzie fondamentali di uno stato di diritto. Quali sono effettivamente le problematiche delle prigioni e dei suoi detenuti? Penso di poter comunicare pacificamente, considerando che il carcere l’ho frequentato regolarmente per due lustri, che il primo problema è lo spazio, il secondo è il recupero.
Lo stesso direttore dell’amministrazione penitenziaria dottor Caselli in un suo articolo apparso sull’Alto Adige il 29 ottobre scorso scrive «arretratezza dovuta a lunghi periodi di sostanziale immobilismo dell’amministrazione nonché di disinteresse o distrazione della società».
Infatti dopo aver visitato le carceri del nord Europa, Svizzera e Austria ed aver avuto una viva descrizione da film e libri delle carceri turche e limitrofe, il sistema carcerario italiano mi pare più simile all’extracomunitario che non all’europeo.
Fortunatamente qualcosa però si muove a Roma: è stato completato l’iter istruttorio delle procedure necessarie per dar corso all’assunzione di circa 1400 assistenti giudiziari, 250 addetti alla giustizia minorile, 2300 addetti di polizia penitenziaria e 2000 civili per l’attività sociali di recupero e di reinserimento dei detenuti cui va aggiunto uno stanziamento per le strutture di alcune centinaia di miliardi in tre anni.
Bene ma tutto ciò non è sufficiente ad offrire una garanzia di tutela della dignità del carcerato da un’intollerabile promiscuità.
In particolare lo sforzo di finanziamento per dotare la nazione di nuovi e moderni edifici carcerari deve essere di almeno mille miliardi in due anni, recuperando così spazi sufficienti all’interno dei quali i detenuti possono vivere la propria afflizione con la dignità di esseri umani.
Se questo è il dramma dello spazio fisico l’assenza di lavoro è forse la pena più grande.
Prendiamo ad esempio il carcere di via Pilati a Trento: anche a causa degli spazi ridotti, non da alcuna possibilità lavorativa al detenuto, a parte i turni di scopino, ossia di spazzino.
È solo grazie alla sensibilità del direttore dell’A.P.A.S. (associazione provinciale aiuto sociale) che esiste da oltre un decennio una cooperativa di solidarietà che da lavoro a detenuti ammessi a regime di semilibertà. La stessa associazione gestisce direttamente un corso di prerequisiti lavorativi per detenuti ammessi a pene alternative e/o ai dimessi dal carcere.
È questa la strada: incidere sulla cultura carceraria per mettere in moto tutte le azioni capaci di trasformare il detenuto di oggi in un lavoratore professionalizzato domani. Laboratori, corsi di formazione professionale, accesso alle tecniche elementari dell’informazione, possono costituire per la società un investimento utile e, per i detenuti, la tollerabilità della pena.
Un programma chiaro di questo tipo e dotato delle necessarie risorse economiche è uno strumento indispensabile e in grado di mettere a regime un sistema carcerario più umano e più orientato a recupero di chi oggi, uscito dal carcere, nel 90 per cento dei casi continua a delinquere.
Domandiamoci allora perché tornano a delinquere sempre gli stessi, “i soliti noti”.
A proposito mi piace citare di nuovo il dottor Caselli che ci dice «La mutazione genetica del carcere, da argine contro la delinquenza più pericolosa a contenitore di soggetti che, nel commettere reati certamente da punire a termine di legge, si trovano anche al centro di problemi sociali per i quali occorre chiedersi se il carcere sia davvero l’unica risposta possibile e, in quanto unica, la più giusta e vantaggiosa per quel recupero di sicurezza che tutta la società vuole».
Non mi piace invece il menefreghismo della gente comune, il prevalere in essa di sentimenti meschini come certe tendenze forcaiole, riferite sia pur agli aspetti più drammatici della pedofilia, sebbene infine li possa preferire all’indifferenza di chi guarda dall’alto verso il basso questi problemi.
Per costoro la pena e il carcere non equivalgono soltanto a sicurezza bensì soprattutto hanno lo scopo preciso di farli sentire migliori. Di chi? Degli avanzi di galera?