Intervista a Michele Grieco
a cura di Ivan Ferigo
A giugno, una staffetta paralimpica ha attraversato l’Italia per dare un messaggio di ripartenza tramite lo sport. Stiamo parlando di Obiettivo Tricolore, iniziativa ideata da Alex Zanardi e Obiettivo3. In questo viaggio in handbike, bicicletta o carrozzina olimpica lungo il Paese, anche un rappresentante trentino, il perginese Michele Grieco. Colpito da ragazzino da un osteosarcoma, grazie al campione bolognese e al suo progetto ha avuto due anni fa l’occasione di mettersi in gioco nel paraciclismo. Due momenti che hanno segnato dei veri e propri cambiamenti nella sua vita. Vissuti come? Ascoltiamolo dalla sua voce.
Il primo cambiamento l’hai avuto a 12 anni, quando ti è stato diagnosticato un tumore osseo al femore. Come l’hai vissuto? E come ne sei uscito?
Il vantaggio è nell’inconsapevolezza. A 12 anni sai e non sai cos’è un tumore. A parte un primo giorno di sconforto, ho sempre vissuto la lotta al tumore, la chemioterapia, l’operazione con l’innesto della protesi, come una sfida. All’ospedale di Padova mi hanno trattato sempre come adulto, dicendomi in faccia quel che avevo, cosa bisognava fare, che possibilità c’erano. Credo che nella cura di qualsiasi tipo di tumore conti molto la parte medica, ma altrettanto il morale e la voglia di vivere. Lì ho costruito il mio carattere, che mi porta a cercare di superare un problema senza abbattermi.
Da quel momento è iniziata la tua vita con quella che chiami “la gamba di ferro”.
Sono pochi ormai i ricordi che ho senza. Ci sono quasi nato. La vedevo, soprattutto in fase adolescenziale, come una parte negativa, che tendevo a nascondere. Raramente indossavo pantaloni corti o costume da bagno. Cercavo sempre di fare cose che non potevo fare, come giocare a calcio, fare lunghe camminate, saltare. Come per dire a me stesso di non avere la protesi, per sembrare normale agli occhi degli altri. Questo conflitto interno è durato fino a tre anni fa.
Quando c’è stata la svolta dell’incontro con Alex Zanardi e Obiettivo3.
Facendo pochissimo sport, il muscolo si stava atrofizzando. A dicembre 2017 mi sono deciso a fare attività fisica, dapprima in palestra. A febbraio 2018 ho letto e visto un video di Alex che completava una Ironman. Mi sono detto che volevo farlo anch’io. Ho iniziato a fare bici, nuoto, marcia (non posso correre, per non danneggiare la protesi). A giugno Sara (allora fidanzata, oggi moglie) mi ha iscritto, un po’ di nascosto, ad un incontro con Obiettivo3.
Un ruolo mica da ridere.
Anche perché l’incontro era a Padova, ed ero un po’ diffidente ad andarci. Al velodromo ho detto che volevo fare triathlon; mi hanno detto che nel nuoto e in bici andavo bene, ma nella corsa non ero competitivo. Tutto in buona fede, ma io l’ho recepito male. Prima di andar via, passo da Alex e gli domando “ma io sono disabile?”; lui mi fa “quanta forza pensi di avere in quella gamba?”. Io ottimisticamente ho risposto l’80%, e lui “scommettiamo una birra che non superi il 40”. Aveva ragione lui. Aggiungendo: “Nella corsa non sei competitivo, ma nel ciclismo puoi fare la tua parte”. Da quel giorno ho iniziato a collaborare con Obiettivo3. Devo tantissimo ad Alex e al presidente Pierino Dainese.
Cosa ti ha trasmesso Alex?
La grande magia di Alex, per la quale non finirò mai di ringraziarlo, è stato farmi capire che la protesi da disabilità poteva diventare un’opportunità. Da quando ho accettato di avere una protesi ho vissuto un sacco di esperienze da sogno. Una nuova vita. Alex ha cambiato il mio punto di vista. Mi ha fatto vedere chi ero veramente. Questo mi ha reso più libero di vivere la vita.
Hai anche avuto modo di realizzare il sogno della Ironman.
Sì, l’anno scorso insieme ad Alex ed altri compagni di Obiettivo3. Ho fatto la parte di ciclismo. È stata un’emozione incredibile: realizzare un sogno è sempre qualcosa di magico.
Arriviamo così alla staffetta tricolore. Che esperienza è stata, dalla partenza di Levico all’arrivo di Santa Maria di Leuca, passando per l’incidente di Alex?
Già dalla prima telefonata l’entusiasmo si è fatto sentire: che un progetto simile sia partito dal paraciclicmo è stato sorprendente. Tutte le persone disabili sono ripartite almeno una volta. Dare questo segnale a un’intera nazione è stata un’idea fantastica. Ero onorato di fare la partenza da Levico: una giornata intensa, piena di emozioni, la rivivrei mille volte. Arrivare a Fonzaso e consegnare il testimone è stata un’emozione impagabile. Poi è successo quel che è successo. La situazione ha scosso tutta la squadra. Ma tutti siamo stati unanimi nel dire che Alex avrebbe continuato, ce l’ha insegnato lui. Alex è la rappresentazione della persona che non molla mai: così noi non potevamo mollare questa staffetta. Credo che tutta quest’energia ce l’abbia data proprio Alex. Sono contento di averla portata fino a Leuca: all’Italia serviva questo messaggio, l’abbiamo portato anche per Alex e Pierino. Mi auguro che Alex si svegli, stia bene e possa tornare dalla sua famiglia. È quel che merita. È una persona di qualità che serve all’Italia e al mondo.
Questa tua esperienza adesso la vuoi portare ad altre persone che si avvicinano ad uno sport, come il paraciclismo, ancora poco conosciuto.
Credo che soprattutto per noi persone disabili lo sport sia di fondamentale importanza: migliora la vita a livello fisico e soprattutto psicologico, ti fa ricredere in te stesso, ritrovare la libertà che pensavi di aver perso. Quando salgo in bici, sono uguale a un altro. In quel momento non c’è disabilità, c’è solo sport. Voglio far sì che tante persone con disabilità possano scoprire questo: se lo sport ha cambiato la vita a me, può cambiarla anche a un’altra persona. Credo che ogni persona disabile possa fare almeno uno sport: si tratta di trovare quello che piace, praticarlo, divertirsi soprattutto, mettersi in moto.