A molte persone con disabilità, specie a Natale, non sarà sfuggita qualche carrozzina “di troppo” in film, documentari e serie tv. Disabili nati così, disabilità dovute a malattie degenerative, incidenti o sopraggiunte con l’avanzare degli anni. La loro presenza sugli schermi è, però, un fenomeno recente. Tajoli, cantante e poliomielitico degli anni Cinquanta-sessanta, non fu invitato a Sanremo fino al 1961, perché ritenuto “poco telegenico”. E lo stesso, quando cantò, la Rai riuscì nell’impresa di non far mai apparire la sua carrozzina, pur essendoci lui seduto sopra!
La presenza di persone con disabilità – nello specifico di soldati rimasti invalidi dopo la Seconda Guerra Mondiale – piano piano si affermò nei media americani, per passare il messaggio che, nonostante le lesioni spesso gravi, i veterani potevano condurre una vita “normale”. Poi arrivarono Iron Man e altri e nei primi anni Settanta la narrazione della disabilità divenne una sorta di filone pedagogico. A mia memoria, la prima carrozzina elettrica, la scorsi in un film del tenente Colombo a fine anni Settanta: per me, da poco tetraplegico ormai rassegnato a chiedere una spinta al primo disponibile, fu una scoperta epocale! Poi, a strada aperta, si infilarono altri, da Pierangelo Bertoli – che cantò, con grande sconto e super intervista, anche per noi di Pro.di.Gio all’Auditorium Santa Chiara – a Ezio Bosso, colpito da una malattia neurodegenerativa e sensibilissimo direttore d’orchestra. Si son fatti avanti Gasparri (ricordate Grand Hotel?) dopo il terribile capitombolo sulle strade romane, Christopher Reeve ossia Superman come testimonial della tetraplegia, la cantante cieca Minetti, gli attori con sindrome di Down e e perfino cartoni animati, giapponesi s’intende. Certo non parliamo di Rambo in azione in sedia a rotelle né di un film di Tarantino, ma che dire di un Pulp Fiction di attori con disabilità, uno con la mano anchilosata e l’altro in carrozzina e via cantando?
Cosa succede, però, nei tempi non coperti da cinepresa? Perché è così difficile la vita del disabile fuori dalle luci? I film presentano, i documentari mostrano e i racconti di libri e romanzi narrano una realtà in cui molte volte tutto va bene, senza asperità. E le difficoltà vengono raccontate solo con la finalità di mostrare che il loro superamento è possibile.
Quando uscirono i film “Rain Man – L’uomo della pioggia” (1988) e “Forrest Gump” (1994), pionieri nel portare sul grande schermo il tema dell’autismo, negli Stati Uniti alcuni psicologi e genitori di ragazzi con questa condizione protestarono, dicendo che era stata fatta una rappresentazione distorta ed edulcorata della stessa.
Un po’ lo stesso, direi, è successo con la poliziotta con la sindrome di Asperger della serie franco-belga “Astrid e Raphaelle”. Da ultimo, ma solo in ordine di tempo, il romanzo di Jojo Moyes, dove una giovane si trova ad accompagnare il fidanzato rimasto tetraplegico per un incidente nel percorso che lo porta all’eutanasia, cosa certamente possibile, ma forse non proprio nelle modalità indicate dall’autrice.
Dunque, benvenuta narrazione della disabilità ma attenzione ai fatti, alle parole usate e a che non diventi una questione puramente “commerciale”. Perché tra ciò che vediamo sullo schermo o tra le pagine di un romanzo e la realtà, spesso c’è un abisso. La vita di ciascuno di noi è quasi un segreto di esperienze e conoscenze che ci differenzia l’uno dall’altro e che – inevitabilmente – rende diversa la vita quotidiana delle persone normodotate da quella delle persone con disabilità. Quindi benvenute le lacrime furtive mentre scorrono i titoli di coda: l’importante è poi, a tv spenta o libro chiuso, riflettere e immaginare dentro di noi anche il rimanente, ovvero quella parte di storia e tutte quelle situazioni sottaciute perché poco “sceniche”.