Che il territorio trentino sia una regione di transito non è una novità: geograficamente mediano tra la penisola italiana e il territorio europeo, per secoli è stato la cerniera che collegava culture, ideologie, merci e persone.
Nonostante queste forti connessioni con l’esterno, i caratteri aspri della montagna, secondo il positivismo determinista ottocentesco, avrebbero influenzato anche i suoi abitanti rendendoli “orsi”: riservati, asociali, schivi.
Una smentita storica, o un ridimensionamento, potrebbe arrivare da testimonianze passate: l’impronta culturale favorevole all’assistenza e al reciproco aiuto, che ancora oggi caratterizza molti abitanti di questa terra, sembrerebbe retaggio derivante direttamente da un nostro passato non troppo recente.
Non è una novità ricordare come il Trentino sia all’avanguardia nell’ambito della solidarietà e quanto la popolazione si prodighi sia nei confronti di connazionali colpiti da sventure sia nei riguardi di emergenze internazionali; la solidarietà si manifesta solitamente con un attivo sentimento d’empatia che porta al sostegno economico e assistenziale di chi si trova in difficoltà.
Non solo impressioni… Dati alla mano
Il Trentino rimane un unicum a livello nazionale: condizione avvalorata da una recente indagine ISTAT che evidenzia come il 27,8% della popolazione locale, dai 14 anni compiuti dall’anno 2010, è coinvolta in esperienze di volontariato e attività sociali. Più del doppio della media nazionale! L’ambito sanitario, il corpo dei vigili del fuoco, e il settore assistenziale rimangono i più quotati.
Leggendo il rapporto della “Mappa del Volontariato Trentino 2011” le statistiche raccontano che la quota di partecipanti sfiora il 7%: si parla di 37.000 persone su un totale di 530.000 abitanti.
Tutto merito dei tempi recenti? Forse guardando quasi un millennio addietro qualche segno, qualche indizio che sveli quest’impronta comportamentale già è leggibile.
Xenodochi: laici e clericali assieme per i viandanti
Nel breve excursus storico che si propone è da ricordare che Trento non ha niente a che vedere con le laiche esperienze comunali che hanno caratterizzato le più importanti città dell’Italia centro settentrionale a partire dal XI secolo: l’impronta clericale è sempre stata marcata, basti citare il forte stampo benedettino di molte istituzioni che sorsero sulle principali vie di transito del Nord Est.
In pieno medioevo il territorio trentino vantava pregiati esempi di monachesimo benedettino, si pensi ad esempio al monastero di San Candido, fondato verso la fine del VIII secolo in Alta Pusteria, quello di San Giovanni a Müstai in Val Monastero, ora in Svizzera; o ancora nel XI secolo venne eretto il Castello Badia, vicino a Brunico, comunità femminile. Infine è da citare l’abbazia benedettina di Monte Maria, fondata in Engadina nel 1146.
Oltre alla presenza significativa delle congregazioni dell’Ordine di San Benedetto, che si manifestava non in città ma sulle principali arterie di collegamento (questo era il criterio che permetteva il sorgere di tali fondazione: elemento preponderante per il controllo diretto del territorio), la zona vantava di esperienze assistenziali alternative: furono istituite per soddisfare la volontà della chiesa riformata di controllare in maniera diretta la mobilità, ponendo particolare attenzione ai principali nodi di traffico. Sorsero dunque su tutto il territorio istituzioni monastico-ospedaliere. Quest’ultima definizione potrebbe però ingannare: xenodochi si ritiene sia la denominazione più aderente per questi luoghi di appoggio e ricovero gratuito per pellegrini e viandanti (dal latino Xenodòchium, dal greco Xenodocheion da Xènos ospite e Docheion ricettacolo).
Presenti un po’ovunque, dal centro città alle rupi più impervie, sopperivano alla necessità di accogliere stranieri e offrire loro ricovero, ma senza assumere funzioni ospedaliere. Qualsiasi istituto religioso poteva proporne la fondazione: durante il XII e XIII secolo ne sorsero molti rispondendo a logiche locali. Si trattava di fondazioni benefiche collegate a centri religiosi dove vi lavoravano confraternite di laici: sia donne che uomini motivati, mossi da carità.
Quest’ultimo è tra gli aspetti più originali della struttura: l’ospitalità non era offerta solo dagli appartenenti al clero ma, secondo i dettami evangelici, tale compito lo potevano svolgere anche i laici. Aiutavano negli xenodochi sia nelle vesti di coniugi che singoli, quindi sia uomini che donne che si mettevano al lavoro a diretto contatto con i pellegrini e viaggiatori.
Lo studioso Walter Schneider ha contato un centinaio di queste fondazioni, quasi la metà in città e il resto dislocato nelle valli, presenti non contemporaneamente e disposte sul territorio in maniera capillare, luoghi non di cura, ma di ospitalità.
Parallelamente c’erano ospedali e strutture sanitarie specifiche, come i lazzaretti dedicati ai lebbrosi, i sanatori e le terme.
Ma il dato più interessante sembrerebbe proprio essere la presenza omogenea di questi xenodochi che, graziando l’autrice di una forzatura storica-interpretativa e trattando, quindi, tutto ciò come un’ipotesi di lavoro, potrebbero essere letti come precursori dell’attuale rete di solidarietà per cui la regione alpina s’è spesso distinta.