La strada e la bottega

Data: 01/12/01

Rivista: dicembre 2001

“La strada e la bottega” è stato il titolo del convegno proposto dall’Ufficio Catechistico Nazionale settore dei disabili tenutosi a Montesilvano (PE) dal 6 al 9 settembre. Era rivolto ai responsabili del settore disabili diocesani, catechisti, operatori ed associazioni che operano nell’ambito della disabilità.

Era presente anche quest’anno una delegazione della diocesi di Trento. Codesto corso di formazione faceva seguito a quello tenutosi a Fiuggi nel marzo 2000. Il convegno dal sottotitolo “strumenti e tecniche di sensibilizzazione comunitaria all’accoglienza delle persone disabili”,con una metodologia attiva centrata sull’autoapprendimento e sul lavoro di gruppo, ha avuto due ben definiti obiettivi:

  • sviluppare la conoscenza di alcune disabilità, in particolare i disturbi con iperattività e deficit dell’attenzione e sordità negli aspetti medico, pastorale e catechetico, in un’ottica di globale attenzione alla persona;
  • progettare iniziative catechistiche di accoglienza alla persona disabile nella vita comunitaria per un arricchimento complessivo della catechesi.

Anche se il tema del convegno è stato sviluppato attorno a due specifiche disabilità, sono emerse dalle relazioni e soprattutto dai lavori di gruppo, indicazioni precise circa le dimensioni operative che gli operatori, responsabili della pastorale parrocchiale, devono tenere presenti affinché tutte le persone, senza distinzioni, possano crescere nella fede della Chiesa.

Partendo dalle affermazioni del Documento Base della catechesi N° 125 e 127, don Giuseppe Morante, docente di catechetica presso l’Università Salesiana di Roma, ha sintetizzato le dimensioni operative dell’educatore e in particolare del catechista in alcuni verbi, che indicano iniziative concrete per il raggiungimento dell’integrazione, normalizzazione e personalizzazione delle persone disabili:

Accogliere le persone con handicap offrendo coinvolgimento e amicizia nella vita della comunità. Senza una preventiva conoscenza della situazione, si può essere portati a pensare che il loro stato non ci tocchi, non è compito nostro. Questo distacco psicologico favorisce la logica della delega che carica su alcuni specialisti un compito comunitario appartenente a tutti i cristiani.

Rivolgere la dovuta attenzione alla famiglia della persona con handicap. Essa non va lasciata sola col proprio problema ma aiutata ad assumere un atteggiamento sereno nei confronti del limite. Questo è possibile se essa scopre solidarietà, se vede disponibilità, se trova possibilità di condivisione nell’affrontare i disagi relativi alla vita dei figli disadattati.

Valorizzare i carismi delle persone in difficoltà, soprattutto quelle con problemi di handicap. Per questo tipo di intervento concreto va superata prima di tutto l’ottica che ha l’efficienza come parametro base in favore della consapevolezza che è sufficiente chiedere a ciascuno quello di cui è capace.

È necessario stimolare questa creatività dei singoli: nella comunità si possono affidare tanti piccoli servizi anche ai “disabili”, secondo quello che ciascuno di essi può e sa fare.

Superare la mentalità assistenzialistica, sostituendo l’agire per con l’agire con.

Le conseguenze dell’atteggiamento assistenzialistico portano a far credere di stare a posto con la propria coscienza, solo perché di tanto in tanto si offrono beni e tempo. È necessario, invece, non partire dalla propria normalità efficiente, ma dalla possibilità che altri debbano poter esprimere il proprio valore.

Offrire la possibilità alle persone con handicap di accedere normalmente ai sacramenti. In questa prospettiva è necessario convertirsi da quella mentalità conseguente ad una catechesi che diventa solo conoscenza della verità. Per le situazioni di handicap psichico grave, si deve fare riferimento alla consapevolezza e alla fede della comunità.

Qui il problema non coinvolge solo il singolo catechista, ma pastori ed educatori, cioè tutta la comunità con le sue istituzioni (compreso il Consiglio pastorale).

Si deve pensare ad una programmazione rispettosa del cammino possibile e personalizzato di ciascuno, favorendo l’integrazione nei gruppi di catechesi, superando ostacoli fisici, adottando accorgimenti di comunicazione con contenuti graduali.

È evidente la necessità di una formazione-sensibilizzazione degli educatori-catechisti affinché possano:

Assicurare, prima di ogni intervento di inserimento, un clima fatto di vita comunitaria, di attenzione, capace di far sperimentare l’Amore e la Presenza di Dio come Padre, di Gesù come amico, dello Spirito Santo come forza vitale: bisogna essere convinti che la trasmissione della fede avviene più per osmosi comunitaria che per conoscenze dottrinali.

Combattere con iniziative culturali appropriate una certa mentalità statica ancora attuale nelle comunità seconda la quale la presenza di una persona con handicap limita la vita di gruppo catechistico. Essa deve diventare invece segno di crescita comunitaria nella fede e di testimonianza dell’amore.

FAVORIRE la comprensione che ogni persona in situazione di handicap è anch’essa un dono significativo alla comunità e nelle comunità deve essere aiutata a diventare protagonista del proprio cammino di fede.

Sostenere lo sviluppo della cultura del handicap inteso non soltanto come abbattimento delle barriere architettoniche ma soprattutto di quelle mentali.

Facilitare con ogni mezzo possibile e con le persone disponibili un’attiva partecipazione di tutti i membri della comunità alla liturgia della parrocchia, manifestando sensibilità specifica proprio per le persone con limiti fisici e mentali.

Dare importanza e tempo per la preparazione e formazione personale: il catechista non deve diventare uno specialista delle varie disabilità ma è necessario che egli conosca il soggetto, le sue problematiche, i linguaggi per comunicare e gli strumenti necessari per accogliere l’annuncio di fede.

Diventare il tramite con l’ambiente sociale locale e con le sue “Istituzioni di servizio” (ASL, Servizi di Assistenza, Associazioni di volontariato), non sostituendosi ai loro dovuti servizi sociali ma sollecitando un loro servizio funzionale e collaborando con loro.

In conclusione del corso, il dott. Francesco Pieroni, presidente dell’IGAR (Istituto Gruppo di Analisi di Roma), ha riassunto le riflessioni del convegno proponendo la mano come metafora del “pensiero positivo”.

Occorre “mettere mano”, usare:

  • il pollice: occorre lasciare il segno”, l’impronta; c’è la necessità di fare delle cose, non è sufficiente il dire;
  • l’indice: c’è bisogno, nella comunità, di indicare strategie, interventi, ma in modo propositivi;
  • medio: ricordarsi che non si è soli: siamo in mezzo agli altri, a tutti gli altri;
  • anulare: occorre essere fedeli a se stessi; è necessario migliorarsi, per aiutare gli altri a migliorare;
  • mignolo: occorre percorrere la strada dei piccoli passi, nel rispetto dei tempi degli altri, dello “stare con”, del “collocarsi” nelle esperienze delle persone, del lasciarsi coinvolgere, per non cadere nel rischio di calare le decisioni dall’alto.

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