“Chi usa la violenza è un debole”. È questa una delle frasi d’effetto utilizzate nella campagna di promozione dell’incontro aperto al pubblico tenutosi nell’aula Kessler della Facoltà di Sociologia di Trento. Qui si è discusso del delicato problema delle violenze fisiche e psicologiche che, in particolare, le donne subiscono sui luoghi di lavoro.
Apre i lavori Simonetta Fedrizzi, Presidente Commissione provinciale Pari Opportunità, che rammenta come la violenza trovi origini in una cultura dove la donna è considerata in posizione subalterna. Questo fatto si riflette non solo nei rapporti privati, ma anche nei luoghi di lavoro. Ci spiega che il 25 novembre è considerata la giornata internazionale dedicata alla lotta contro la violenza sulle donne e che è solo dal 2005 che l’Italia ha iniziato a ricordarla.
Il Presidente della Commissione conclude soffermandosi sul tema dei Comitati per le Pari Opportunità, che in Trentino sono unificati sotto la dicitura “CUBE”. Tale rete di comitati nata nel 2006, presenzia ad un tavolo di lavoro permanente che ha come obiettivo la piena realizzazione delle pari opportunità e la valorizzazione delle differenze di genere.
Successivamente Anna Conigliaro Michelini, Referente Gruppo di lavoro sulla violenza della Commissione provinciale Pari Opportunità, evidenzia come, con la crisi dei mercati che stiamo vivendo, si allarghi la base delle categorie vulnerabili. “Sicuramente le donne hanno aumentato il grado di vulnerabilità in generale”.
Questo dato è avvalorato secondo Lucia Basso, Consigliera di Parità Regione Veneto, dal fatto che c’è ancora tanto imbarazzo ad affrontare nel mondo del lavoro la violenza e prevaricazione sulle donne: “è un tabù”.
I fattori, secondo la Consigliera, per quanto riguarda almeno la regione Veneto, sono da collegarsi all’aumento del “lavoro a chiamata” che nella maggioranza dei casi è appannaggio delle donne. Si pensi ad esempio ai contratti stipulati con le imprese di pulizia. Con questa modalità di impiego la lavoratrice non può determinare in anticipo né il suo reddito finale, né il luogo della prestazione lavorativa e né l’effettivo orario di lavoro complessivo. Questo perché tale impiego è basato sul fatto che si è inseriti in una lista di disponibilità, in base alla quale, il datore di lavoro decide in funzione delle esigenze d’impresa chi, dove e quando far lavorare.
In questo contesto di assoluta precarietà, aumentano i comportamenti vessatori, molesti e lesivi della dignità che talvolta assumono forme subdole e difficilmente evidenziabili. Come nel caso del cosiddetto “mobbing strategico”. Questo tipo di violenza passa attraverso un iniziale demansionamento della lavoratrice messo in atto, ad esempio, nel momento del rientro dal periodo di maternità e con la finalità di mandare letteralmente via l’interessata. Tale comportamento quotidiano e violento ad opera dell’azienda, genera nella vittima un forte stato di depressione che la costringe a rassegnare volontarie dimissioni. Casi del genere sono più facilmente riscontrabili in quegli ambiti come le cooperazione, la ristorazione e in generale nel settore terziario.
Questo tipo di violenza pur non essendo direttamente fisica, va ad incidere profondamente sull’identità professionale di madre e di moglie e per questo si creano tensioni a livello di nucleo familiare. Lo stesso accade, anche se in modo diverso, ai padri che chiedono i congedi parentali. In questo caso si va a colpire non tanto col demansionamento, ma con la diminuzione del salario.
Altra questione ricordata dalla Consigliera Basso, è quella riguardante la violenza sessuale sul luogo di lavoro. Ad essere vulnerabili sono generalmente tre tipologie di lavoratrici: le minorenni, le donne immigrate e le manager. A questo proposito si sono citati alcuni fatti realmente accaduti, come nel caso di una giovane madre del Gahna, impiegata nell’industri metalmeccanica e molestata dal suo capo per oltre un anno, al termine del quale è riuscita a chiedere aiuto. Il motivo di tale violenza era che non le venivano date le ferie necessarie per andare a trovare i suoi due figli in Africa, finché non continuava a prestarsi sessualmente. È riuscita a denunciare il fatto contro il velo di omertà che avvolgeva tutto lo stabilimento e che costringeva al silenzio altre sue colleghe, a loro volta e in modi differenti, vittime.
Anche il mondo ben più cotonato della dirigenza d’impresa non è incolume da episodi del genere, soprattutto quando a ricoprire un ruolo strategico sono le donne. Qui si instaura un meccanismo di prevaricazione sottile. Generalmente è messo in atto dai dirigenti maschi che non perdono occasione per ricordare alle colleghe che, in fondo esse, non sono altro che un corpo sessuale e che per questo, ancora una volta, sono inferiori nonostante la qualifica. Inutile ricordare che pure in questo caso le pressioni che si subiscono sono spietate ed estremamente umilianti.
Cosa si può fare per arginare questa cultura alla prevaricazione sessuale? L’Europa dà indicazioni a riguardo, ma spesso risultano disattese. Come accade in Italia, dove si continua a qualificare lo stupro come reato contro una non ben definita “morale pubblica”, invece che considerarlo contro la persona. Questo dato normativo ha grosse ricadute sull’impostazione sanzionatoria che purtroppo risulta, allo stato dei fatti, debole.
In ogni caso a soccorrere le lacune della legge esistono degli strumenti efficaci di contrasto ai quali la persona può ricorrere per far cessare o per prevenire eventuali molestie.
Uno di essi riguarda il rafforzamento dell’approccio assertivo nei confronti del presunto molestatore. Il che significa, stroncare la molestia subito, con un approccio diretto, ma non sgradevole e che non lasci spazio a reazioni della controparte.
Altro rimedio è quello per cui le Aziende, per prime, devono prevedere sanzioni disciplinari, finanche al licenziamento, in caso di molestie sul luogo di lavoro.
L’Azienda a tal proposito è obbligata a diffondere un codice di condotta e tale obbligo è frutto di una risoluzione del 1992 ed ha ad oggetto proprio la tutela della dignità di uomini e donne sul lavoro. In questo caso il fatto di esplicitare i comportamenti molesti vietati è già di per sé un efficace deterrente.
“In Trentino non si stà benissimo, anzi la situazione è grave come in tutta Italia.” Con queste parole Eleonora Stenico, Consigliera di Parità della Provincia Autonoma di Trento, mette il punto su una situazione allarmante. Dei 150 casi all’anno seguiti dalla Consigliera il 90% riguarda questioni di maternità e orario di lavoro e sono situazioni che si accompagnano a fattispecie di mobbing.
Insomma il problema esiste e la tendenza è quella ad un suo aumento. In questo clima di incertezza generale, spesso mantenuta anche a livello legislativo, a farne le spese sono soggetti più che mai bisognosi di tutele pronte ed effettive. Per ora, nell’attesa di una presa di posizione seria e incisiva, le vittime di molestie non possono che appoggiarsi alla loro forza di volontà, denunciando i fatti e ricorrendo all’indispensabile aiuto di persone qualificate e competenti come quelle intervenute in quest’incontro.