Tommy Barrett, ha degli occhi da sognatore e l’aspetto di un bimbo di cinque anni, e vive con i suoi genitori, due fratellini gemelli, due gatti e una tartaruga a San Jose, California, il cuore della Silicon Valley. È uno studente che si fa onore, che ama la matematica le scienze e i video games. È anche l’esperto mondiale della classe in Animorfismo e giocattoli Transformer, “Sono macchinine o treni, o animali che si possono trasformare in robots o umani. Mi piacciono” interviene esuberante.
E questo è qualche volta un problema. Per lungo tempo infatti la passione di Tommy per i suoi giocattoli era così forte che quando non erano a portata di mano egli sembrava pretendere di trasformare se stesso in un giocattolo, in un robot e poi in un mostro. Egli lo faceva ovunque, nel cortile della scuola e persino in classe. Il suo insegnante trovava che questa pantomima ripetitiva, peraltro anche simpatica, era disturbante e così pure per sua madre Pam. Ma a quei tempi vi erano altri segnali allarmanti. Pal Barrett ricorda che all’età di tre anni, Tommy parlava fluentemente, perfino con interlocutori volubili, ma sembrava incapace di farsi coinvolgere dai reciproci ruoli in una conversazione, e curiosamente, egli evitava di guardare negli occhi la gente. E sebbene Tommy fosse ovviamente bravo – egli aveva imparato a leggere all’età di quattro anni – egli era così isolato e distratto da non poter partecipare alla lettura di gruppo della scuola.
Quando Tommy superò gli otto anni, i suoi genitori finalmente compresero che c’era qualcosa che non funzionava. Il loro brillante piccolo bimbo, li informò uno psichiatra, aveva una forma mite di autismo detta sindrome Asperger che spesso rispondeva bene alla terapia, e i Barrett trovarono sul momento la notizia alquanto sgradevole.
Questo perché proprio due anni prima i coniugi Barrett, Palm e il marito Chris, ricercatore e programmatore di software, avevano appreso che i fratelli di Tommy, i gemellini, Jason e Danny erano profondamente autistici.
I gemellini che sembravano normali alla nascita, impararono anche alcune parole prima di immergersi nel loro mondo segreto, perdendo velocemente le abilità che avevano cominciato a manifestare. Invece di usare i giocattoli per giocare, loro li rompevano, invece di parlare essi emettevano gemiti, o urletti…
Prima Jason, poi Danny, ora Tommy.
Pam e Chris cominciarono con il chiedersi se i loro figli fossero stati sottoposti a sostanze tossiche. Essi cominciarono ad indagare le problematiche delle loro parentele, chiedendosi da quanto tempo l’autismo adombrasse le loro famiglie.
L’angoscia vissuta da Palm e Chris Barrett è ciò che provano decine di migliaia di famiglie degli Stati Uniti di America e di altre parti del mondo. Così improvvisamente casi di autismo e di sindromi correlate, come l’Asperger, stanno numericamente esplodendo e nessuno ha una buona spiegazione. Mentre per alcuni esperti questo incremento vertiginoso dipende unicamente dalla diffusione recente di validi criteri diagnostici, secondo altri questi dati sono in parte reali e preoccupanti. Nello stato abitato dai Barrett, la California, per esempio, il numero dei bambini autistici che si appoggiano ai servizi sociali è più che quadruplicato rispetto ai trascorsi quindici anni, dai quasi 4.000 casi nel 1987 ai circa 18.000 di oggi. I casi di Asperger Sindrome sono così comuni nella Silicon Valley, che il giornale locale Wired, ha infatti coniato un termine da età cibernetica per la malattia, “sindrome del disadattato”, riferendosi alla peculiare convivenza, esistente in chi possiede rilevanti abilità intellettuali, di tali abilità e di una contemporanea notevole difficoltà di interazione sociale. Wired cercò di creare una provocazione o un caso modello sottolineando la crescita ad un livello allarmante di tali patologie nella Silicon Valley – e chiese se “la matematica e la tecnologia” potessero in qualche maniera centrare. Ancora formulò il sospetto che la crescita di autismo e Asperger fosse fortemente confinata in enclavi di alta tecnologia o tra i bambini di programmatori di computer o di ingenieri di software. Succedono cose simili in ogni categoria di lavoro o socio-economica e in ogni stato. “Noi lo stiamo estrapolando dal sistema scolastico dello stato rurale della Giorgia” osserva Sheila Wagner, direttore del Centro di Ricerca sull’Autismo di Atlanta Emory University. “La gente dice: ‘Non abbiamo avuto nessun bambino con autismo prima, e ora 10! Cosa sta succedendo?’”
È una buona domanda. Non molto tempo fa, l’autismo era creduto ‘comparativamente’ assai raro, colpendo una persona su 10.000. Gli ultimi studi, comunque suggeriscono che molti, uno su 150, bambini di dieci anni e anche più giovani, sono affetti da autismo o da problematiche correlate – un totale di circa 300.000 bambini negli Stati Uniti solamente. Se si includono gli adulti, come dice la Società d’Autismo d’America, più di un milione di persone soffre negli USA di disordini di tipo autistico (anche conosciuti come “Disordini Pervasivi dello Sviluppo” o PDDS). Il problema è dunque cinque volte più comune della sindrome di Down, e tre volte più comune del Diabete Giovanile. Nessuna sorpresa dunque sulle richieste di rimedi, fatte dai genitori negli ambulatori di psicologi e psichiatri. Nessuna sorpresa se le scuole si attivano ad aiutare con operatori di sostegno il personale docente. E nessuna sorpresa se istituti pubblici e privati hanno lanciato iniziative in collaborazione, allo scopo di decifrare la complessa biologia che produce simile abbagliante percentuale di disabilità.
Nell’urgenza delle loro domande, i genitori, come i Barretts, stanno provocando quella che potremmo definire una rivoluzione scientifica. La risposta ai loro quesiti è il denaro che finalmente arriva alla ricerca sull’autismo, un settore che solo cinque anni or sono appariva un lago stagnante all’interno delle neuroscienze. Oggi dozzine di scienziati sono impegnati nell’identificare i geni associati all’autismo. Proprio nell’ultimo mese, in una serie di articoli pubblicati dalla rivista Psichiatria Molecolare, scienziati americani, britannici, italiani e francesi, riferiscono che stanno ottenendo significativi progressi. Molti anche i gruppi di ricerca genetica impegnati nel creare modelli animali per l’autismo in forma di topi ‘mutanti’. Essi stanno per esaminare gli effetti di vari “fattori ambientali” che potrebbero contribuire allo sviluppo dell’autismo e utilizzano tecnologie avanzate di neuro-immagine, per sondare la profondità della organizzazione cerebrale negli autistici. Questi ricercatori stanno divenendo sempre più esperti, nel penetrare i segreti di questi disordini, e stanno formulando nuove ipotesi relativamente ai meccanismi mentali di questi pazienti, così diversi, per certi aspetti, eppure, per altri, così simili a noi.