Le chiavi di casa

Data: 01/10/04

Rivista: ottobre 2004

Non lo chiama mai papà. Paolo non chiama mai papà Gianni, eppure sin dal loro primo incontro, nel vagone ristorante di un treno diretto in Germania, il ragazzo sa che il timido uomo impacciato che gli sta di fronte è quel padre che non ha mai conosciuto. Alla domanda diretta posta dall’adulto: “Sai chi sono io?” l’adolescente disabile non dimostra nessuna incertezza: “Tu sei Gianni, mio padre!” Lo sguardo dell’uomo da impacciato si fa perso, una certa vergogna traspare nella profondità dei suo occhi celesti, sebbene si debba attendere ancora qualche decina di minuti perché la frase “Sembra quasi che lei si vergogni di suo figlio” esca allo scoperto. A dirla è un’altra persona, la madre di un’altra ragazza disabile, più grande e più grave di Paolo, che incontra Gianni all’ospedale mentre cerca in malomodo di aiutare Paolo. Anche in questa scena l’imbarazzo dell’adulto è palese.

Il film di Gianni Amelio, in concorso alla mostra del cinema di Venezia, merita sicuramente la nostra attenzione. In passato il dorato mondo della cellulosa si è soffermato spesso a dare un occhio alle diverse abilità, ma ora, con questa storia così quotidiana e reale, ci sentiamo forse più coinvolti che in altre circostanze. Se Paolo, il personaggio, spicca per la sua personalità aperta e disinvolta con tutti, per la sua forza di carattere, per l’impegno che mette nello sfondare le resistenze di un padre che non sa ancora quanto è disposto ad amarlo, Andrea, l’attore, è un ragazzino che entra nel cuore per la sua deformità, proposta senza troppo pudore dal regista, e per la bravura che dimostra nell’interpretare un ruolo che, pur nella prossimità con la sua storia biografica, è pur sempre una finzione scenica.

Non è semplice parlare di questo film senza cadere nelle banalità che sempre vengono scaricate a fiumi nell’ambito delle diverse abilità. Non è stato sicuramente facile portare questo mondo nelle sale cinematografiche senza scadere nella mediocrità, tentando di rispettare regole e tabù di una dimensione privata più delicata di altre e senza pretendere di creare un prodotto pedagogico. Sceneggiatori (Sandro Petraglia e Stefano Rulli, quelli de La meglio gioventù) e regista sono stati molto abili nel creare un’opera che, senza aspettarsi un risvolto pedagogico troppo ambizioso, apre una finestra sulla difficile quotidianità della vita di un diversabile.

Interessante l’accostamento tra la disabilità fisica del figlio e la disabilità emotiva di un padre che non vuole o forse sa accettarlo. La sfera emozionale di Gianni è un caos eloquente, una mina che scoppia ad ogni nuova scoperta delle piccole difficoltà del figlio. Amelio non mette mai in primo piano i pensieri di questo padre frustrato, non gli mette in bocca quelle parole che aiuterebbero lo spettatore a capire pienamente cosa gli passa per la testa. A parlare per Gianni sono i suoi gesti, le carezze, gli abbracci e i baci, come se volesse recuperare quell’affetto che per quindici anni non ha dato a questo figlio malato che solo ora gli sembra un dono. L’oggetto della vergogna passa così da quel ragazzo aperto e allegro a sé stesso. Gianni si vergogna della scelta che ha fatto da giovane, quando in ospedale, a pochi minuti dalla morte della mamma di Paolo, lui ha abbandonato suo figlio, aprendo la porta del suo cuore ad un odio che durerà quindici anni. Solo nel rivedere questo ragazzo dalle membra storpie, la testa di un bambino, ma il cuore grande come la distanza tra lui e suo padre, solo nell’incontro con Paolo, suo figlio, ritrova la chiave per riaprire la porta e far posto a sentimenti nuovi.

Mentre la figura di Paolo è trasparente quella di Gianni è enigmatica. I sentimenti del figlio sono chiari ed esibiti senza problemi, mentre quelli del padre hanno bisogno di una guida. A fare da Cicerone nell’universo della disabilità è Nicole, una mamma che vede subito la difficoltà di un uomo a fare i conti con “il lavoro sporco che tocca alle madri”. Anche a questo personaggio vengono dati dei contorni volutamente sfumati, come se il regista volesse trasmettere il suo rispetto verso una realtà che, non interessandolo personalmente, ha difficoltà ad interpretare in maniera totale.

Dopo averlo visto esci dalla sala con una strana sensazione. Al di là della bellezza o meno del risultato e il paragone con il libro di Giuseppe Pottiglia Nati due vole dal quale è stato tratto il soggetto, questo film è una grande fonte di spunti di riflessione. Interessante sia per chi vive nel mondo della diversabilità, che per chi ne ha a che fare e anche per chi non lo conosce abbastanza da sapere quali sono gli ostacoli che ogni giorno esso propone. Il realismo con cui vengono proposte immagine e situazioni è sicuramente una scelta azzeccata. Sarebbe forse stato più semplice per il regista lavorare in superficie, proponendo la solita pellicola patinata che suscita un mare di lacrime nella platea commossa da scene surreali. La scelta della quotidianità invece è un rischio che francamente ci è piaciuto, ha il sapore della protesta verso l’acriticità di certo cinema che sbandiera il proprio interesse verso i casi umani elargendo poi solo tonnellate di banalità. Invece Amelio non lascia nulla per scontato, sorvola solo quei dettagli personali la cui messinscena sarebbe solo un’ingiustificata invasione della sfera privata.

precedente

successivo